Tunisia: commissione per la resa dei conti con il passato
L’anniversario della ‘Rivolta dei gelsomini’ in Tunisia, la prima della stagione delle Primavere arabe, è tradizionalmente tempo di bilanci. Quest’anno è coinciso con la fine del mandato della Commissione di Verità e Dignità (Instance Vérité et Dignité, Ivd), pietra angolare del processo di giustizia di transizione che avrebbe dovuto, in questi ultimi anni, riparare alle conseguenze delle passate violazioni dei diritti umani, al fine di ristabilire la coesione sociale e rafforzare lo stato di diritto in Tunisia.
La fine dei lavori della Commissione di Verità e Dignità
L’Ivd è l’unica commissione di verità e riconciliazione attivata a seguito delle rivolte del 2011 e la seconda nel mondo arabo dopo quella nata nel 2004 per volontà dell’attuale re del Marocco, Mohammed VI, per fare luce sugli ‘anni di piombo’ del lungo regno del padre Hassan II. Una commissione che, a differenza del caso tunisino, operava in una situazione di continuità di regime, piuttosto che di rottura.
Concepita nel momento “rivoluzionario”, l’Idv ha tuttavia inaugurato i lavori nel giugno del 2014 in un clima già diverso, segnato dall’ascesa di Nidaa Tounes, che rivendica l’eredità di Bourghiba e annovera tra le sue fila diversi quadri ed esponenti del vecchio partito al potere, sciolto all’indomani delle rivolte.
Sin dall’inizio, grande emotività e polemiche hanno accompagnato l’operato della Commissione, alla cui conferenza conclusiva a metà dello scorso dicembre, si è fatta notare l’assenza delle tre più alte cariche istituzionali: il presidente della Repubblica, quello del parlamento, e quello del governo, tutte espressione di Nidaa.
Le indagini dell’Ivd sulle violazioni dei diritti umani
Nel 2013, durante il governo della Troika – la coalizione guidata dal partito di ispirazione islamica Ennahda – l’allora Assemblea nazionale costituente aveva approvato la legge per il processo di giustizia di transizione e la creazione dell’Ivd. La Commissione ha avuto l’autorizzazione a investigare su abusi commessi da parte delle autorità statali in quasi sessant’anni di regime, quello di Bourghiba prima e quello di Ben Ali poi, dal 1955 – anno precedente all’indipendenza della Tunisia – al 2013.
L’ Ivd ha tentato di ricostruire la verità dei fatti, avviare un processo di identificazione dei colpevoli ed elaborare un programma di riparazione individuale e collettiva. Un’impresa ambiziosa che, attraverso l’accesso ad archivi pubblici e privati, audizioni e indagini, mirava a portare alla luce crimini rimasti nascosti per decenni, preservarne la memoria collettiva e introdurre garanzie affinché questi attacchi non abbiano a ripetersi, anche attraverso una riforma delle istituzioni.
In poco più di quattro anni di lavoro, l’Ivd ha condotto oltre 49.600 interviste confidenziali e tenuto 12 audizioni pubbliche trasmesse in prima serata in diretta televisiva. Degli oltre 62.700 dossier ricevuti, la stragrande maggioranza riguarda casi di detenzione arbitraria, imprigionamento e tortura, a cui si aggiungono episodi di omicidio, stupro come forma di tortura istituzionalizzata, sparizioni forzate, condanne a morte senza processo, oltre a violazioni della libertà di espressione, stampa e circolazione.
Le Camere speciali per il processo di Giustizia transitoria
La Commissione, non avendo competenza giurisdizionale, ha deferito i più gravi ed evidenti casi di violazioni dei diritti umani alla magistratura per un procedimento penale trasmettendoli ad alcune Camere speciali. Queste Camere, appositamente istituite all’interno dei tribunali nazionali, avranno giurisdizione anche sui casi su cui le corti ordinarie si sono già espresse, presumendo ciò possa essere avvenuto in condizioni di mancata indipendenza del sistema giudiziario.
In attesa che sia resa pubblica la relazione finale dei lavori, l’Ivd ha anticipato la proposta di creazione di una commissione parlamentare per seguire l’evoluzione del processo e una pubblica richiesta di perdono alle vittime da parte del presidente della Repubblica, in qualità di primo rappresentante dello Stato.
Oltre alle riparazioni morali, l’Ivd ha anche suggerito l’istituzione di un fondo per le vittime. Una posizione che ha sollevato non poche polemiche da quella parte di società che non vede di buon occhio un ulteriore risarcimento agli islamisti, che costituiscono la maggioranza delle vittime insieme ai militanti della sinistra, dopo gli esborsi del 2012 che hanno accompagnato l’amnistia generale dei prigionieri politici.
Il passato che non passa
Come ribadito più volte dalla presidente della Commissione, Sihem Ben Sedrine, giornalista e attivista dei diritti umani, quella della giustizia di transizione è un’esperienza dolorosa, necessariamente politica e conflittuale. E proprio lei è stata al centro di numerosi attacchi e critiche, anche dall’interno della stessa Commissione, per svariati motivi: dalla vicinanza agli islamisti a una presunta cattiva gestione delle risorse disponibili, passando per il suo carattere per alcuni troppo autoritario.
Secondo altri, proprio la sua forte personalità le ha permesso di resistere a una grande pressione politica e sociale, in un clima ostile e particolarmente esigente. Senza dubbio, l’eccessiva identificazione della Commissione con la sua presidente ha contribuito troppo spesso a deviare l’attenzione, indebolendo la legittimità dell’organo e polarizzando l’opinione pubblica su quello che è stato da molti presentato come un processo di vendetta piuttosto che di riconciliazione.
Molti analisti hanno sottolineato come i risultati prodotti dall’Ivd siano stati al di sotto delle aspettative delle vittime, come del resto già successo in casi analoghi, tra cui Sudafrica e Cile. Le ragioni sono probabilmente da ricercare negli obiettivi troppo ambiziosi da realizzare in un arco di tempo così limitato e nella scarsità di risorse per farlo, oltre che nella resistenza di buona parte della classe politica e nella mancata collaborazione dei ministeri, in particolare quello degli Interni.
Tuttavia, il lavoro della Commissione in Tunisia, e più in generale il processo di giustizia di transizione nelle forme in cui vorrà continuare, ha il grande merito di aver riesumato verità potenzialmente liberatorie per alcuni e scomode per altri, passate sotto silenzio tanto per la censura, quanto per l’effetto della continua propaganda di una nuova Tunisia fiorente e democratica.
Dando pubblicamente voce alle vittime e, in alcuni casi, ai carnefici, si è cercato di affrontare non soltanto gli abusi di un intero apparato statale ‘sotto sequestro’ e al servizio di interessi personali piuttosto che dell’interesse generale, ma anche di fare i conti con una certa visione del ‘progresso’ e dei ‘progressisti’ di cui quel regime si è fatto scudo, tanto a livello nazionale che internazionale.
Quale futuro per la verità?
Al di là del mandato della Commissione ormai concluso, l’attuale legge sul processo di giustizia transitorio prevede il proseguimento dei lavori delle camere speciali e delle riparazioni per le vittime. Tuttavia, le recenti dichiarazioni del primo ministro Youssef Chahed sulla volontà del governo di preparare una nuova legge non sembrano deporre in favore di un mantenimento degli obblighi previsti dalla formulazione attuale.
In Tunisia c’è un clima di persistente polarizzazione e contestazione sociale, con lo sciopero generale nazionale del 17 gennaio indetto dall’Ugtt, il principale sindacato tunisino, una ripresa economica che non si fa vedere e una strisciante nostalgia per un “uomo forte” capace di risolvere l’impasse e le contraddizioni di cui le nuove istituzioni democratiche sono spesso ritenute responsabili. Per questo, sarà necessaria una grande attenzione perché il processo di giustizia di transizione non si esaurisca nell’inerzia e nell’indifferenza, a margine delle prossime legislative e presidenziali del 2019.