Siria: Turchia in trappola tra curdi, Mosca e Washington
Nell’intricata geometria degli interessi in gioco in Siria, la Turchia di Erdogan rischia di rimanere intrappolata. Come nel gioco del cerino, ci rimette chi resta per ultimo con il cerino acceso. Posto che i primi a sottrarsi dalla partita siriana sono stati gli occidentali, mobilitatisi a rilento solo con la comparsa dell’Isis, il sedicente Stato islamico, nel 2014 e comunque avendo cura di non mettere ‘boots on the ground’, e che Iran e Russia sono subentrati percorrendo una sorta di autostrada scarsamente presidiata, la Turchia fin dall’inizio della vicenda si è preoccupata di marcare il territorio oltreconfine, sostenendo l’opposizione sunnita e arrivando a insediare a più riprese, tra il 2016 e il 2017, le sue forze armate nel nord.
Il gioco di Ankara per contrastare i curdi
Tramontato il disegno neo-ottomano da conseguire scalzando Assad dalla Siria, la Turchia ha ripiegato verso l’obiettivo minimo di contrastare non tanto gli attacchi jihadisti, che pure l’hanno investita fino al cuore di Istanbul e Ankara, quanto i curdi del Rojava, tradizionalmente legati agli antagonisti curdi di casa propria, nel frattempo divenuti efficace fanteria della Coalizione anti-terrorismo a guida americana. Da quel momento Ankara ha cominciato a insistere su una zona-cuscinetto, un’area di influenza turca che seguirebbe lo schema di Cipro Nord, dove notoriamente le truppe turche stazionano dal 1974 e l’amministrazione ha un’impronta filo-turca.
Durante il conflitto in Siria, la Turchia ha giocato le sue carte con calcolata spregiudicatezza. Superando remore storiche non minori, ha intessuto, tra alti e bassi, relazioni sinergiche con la Russia entro il processo di Astana e tollerato l’invadenza dell’Iran. Al contempo, ha cercato di evitare uno showdown con gli Stati Uniti, aderendo alla Coalizione anti-Isis e da ultimo cogliendo al volo il caso Khashoggi per attenuare il nutrito contenzioso bilaterale collegato all’affare Gulen, ovvero la scarcerazione del pastore Andrew Brunson.
Sempre confidando che, alla fine, tra i curdi e Ankara gli americani avrebbero optato per l’alleato Nato, lasciandole mano libera sulla sorte dei primi. Un calcolo basato sul retropensiero che i curdi rappresentino per Washington un fattore tattico e non strategico, che Trump ha concentrato l’attenzione sull’Iran, dalla Nuova Dottrina per il Medio Oriente alle tentazioni del consigliere per la Sicurezza nazionale John Bolton per soluzioni radicali, e che in ogni caso la moralità non entra a far parte dei criteri di una guerra.
La decisione di Trump di ritirare le truppe dalla Siria, anche se si trattasse di un ripiegamento verso l’Iraq, rischia di essere interpretata da Erdogan come un via libera al perseguimento del proprio obiettivo prioritario, il dislocamento dei curdi dai propri confini. In effetti, già nel gennaio 2018 gli Stati Uniti, istallati a Manbji, nel nord della Siria, da fine 2014 alla guida della Coalizione anti-terrorismo, si sono adoperati per rimuovere i combattenti curdi ad est dell’Eufrate, aprendo la strada all’esercito turco verso Afrin, con il beneplacito della Russia.
Un conflitto che tutti vogliono abbandonare
L’ambiguità in Siria è di casa nella strategia di tutti, Turchia inclusa. Sempre assicurando a Mosca e Washington la propria lealtà nella lotta al jihadismo, Erdogan ha consentito il transito di foreign fighters attraverso le sue frontiere negli anni dell’avanzata dell’Isis, accordato un vistoso appoggio a militanti islamici infiltrati da jihadisti, e da ultimo tardato a gestire l’area di Idlib secondo le intese di novembre con Mosca, tanto che Tahrir Al-Sham (Ths), ex-Al Nusra ed ex-Al Qaeda, è tuttora attivo in area.
Fonti qualificate ipotizzano addirittura che egli intenda utilizzare questi jihadisti contro i curdi e scorgono prime avvisaglie in tal senso nel cessate il fuoco del 10 gennaio mediato a Idlib tra l’opposizione filo-turca e Tahrir Al-Sham, che obbliga la prima a deporre le armi e affida alla seconda l’amministrazione dell’area. Se così fosse, si tratterebbe di una apertura di credito offerta ai jihadisti. Uno scenario alquanto azzardato, visto che nessuno potrebbe garantire a Erdogan il controllo dei medesimi a conti fatti.
Al momento Erdogan potrebbe considerare che le condizioni sono propizie per conseguire l’obiettivo che considera vitale. Infatti, Trump, tra tentennamenti, contraddizioni e dissensi interni, pare determinato al ritiro, mentre anche Putin cerca una via di uscita da una guerra che, una volta insediato Assad e consolidate le proprie basi lungo il Mediterraneo, non ha ragione di continuare.
I Paesi del Golfo e l’Egitto, in nome di sintonie tra regimi e di una spiccata antipatia per i Fratelli Musulmani, sono tentati di riallacciare relazioni con Damasco e di riammetterla nella Lega Araba, un’acrobatica virata che riscontra molte remore, in primis la netta opposizione del Qatar, sintonizzato come Erdogan sul sostegno ai Fratelli Musulmani.
Persino gli europei stanno valutando l’accreditamento regolare di inviati finora ‘itineranti’, entro un processo di normalizzazione e ricostruzione imperniato su Assad. Sfruttando tra l’altro le sinergie con Israele, che sta intensificando i bombardamenti al sud contro le istallazioni iraniane, tenendo così impegnati Assad e alleati su un secondo fronte.
I curdi e la lotta per la sopravvivenza
Ma potrà bastare l’allontanamento dei curdi di 30 km dal confine che Trump gli avrebbe ‘concesso’ in cambio di assicurazioni che risparmierà la popolazione curda? E chi se la sente di confidare in analoghe dichiarazioni dei jihadisti di Tahrir Al-Sham? E chi non scorge un’inquietante coincidenza con l’attacco jihadista alla base americana di Manbji il 16 gennaio?
È in tale contesto di estrema precarietà che i combattenti curdi si sono rivolti ad Assad per una qualche garanzia di sopravvivenza e di autonomia nei futuri assetti. Uno sviluppo peraltro non paradossale, considerando che i curdi del Rojava non hanno mai antagonizzato la Siria degli Assad, di cui anzi a lungo hanno cercato di ottenere la cittadinanza.
Nel contesto, si tratta tuttavia di vedere se effettivamente Erdogan lancerà la prospettata offensiva sul Rojava, come sta già facendo sul quartiere generale del Pkk a Qardil, nel Kurdistan iracheno; quanto le forze armate di Assad, giunte nel frattempo a Manbji, potrebbero reggere il confronto, e soprattutto quale copertura aerea sarebbe disposta a offrire Mosca.
Ovvero se il rischio di una nuova fase della guerra siriana, che questa volta coinvolgerebbe direttamente due ex-imperi, potrà essere sventato grazie a una rinnovata opera di mediazione russa, magari in occasione della prossima riunione della triade di Astana. O meglio, grazie a un’auspicabile iniziativa diplomatica con la partecipazione dell’Europa sotto egida dell’Onu, che affronti la questione curda entro il grande negoziato per la definizione degli assetti politico-costituzionali della nuova Siria, e rimetta al centro la lotta ai veri jihadisti.
Del resto, lo stesso Erdogan non può permettersi di antagonizzare al contempo Mosca e Washington, di imbarcarsi cioè in uno scontro con i russi nel momento in cui il rapporto con gli americani è tutt’altro che appianato. In altri termini, di rimanere da solo con il cerino acceso, rischiando di auto-infliggersi una deflagrazione.