Regeni: nessuno ha fretta di scoprire la verità
Sono passati esattamente tre anni da quando Giulio Regeni ha dato per l’ultima volta, con un sms, notizie di sé dall’Egitto. E la situazione per quanto riguarda la ricerca della verità su sparizione, tortura e barbaro omicidio del giovane ricercatore friulano è piuttosto scoraggiante.
Un’indagine giunta prematuramente al capolinea
La parola che meglio esprime lo stato delle indagini portate avanti con determinazione e meticolosità dalla procura di Roma è purtroppo, come ha scritto due giorni fa Giovanni Bianconi sul Corriere della Sera, “capolinea”. Ci sono degli iscritti al registro degli indagati – cinque militari egiziani che risultano coinvolti nell’attività di sorveglianza della vittima prima del suo sequestro-, ma non è prevedibile, al momento, che si possa andare oltre.
Si ripropone quel corto circuito tra azione giudiziaria e azione politica che era evidente sin dall’inizio: l’azione della nostra magistratura, che non può raccogliere autonomamente elementi di prova in Egitto, dipende dalla collaborazione fornita da quella egiziana; la collaborazione di quest’ultima, che non è indipendente, è fortemente condizionata dall’esecutivo. La palla, dunque, torna inevitabilmente nelle mani del nostro governo, dalla cui azione politica nei confronti di quello egiziano dipende la possibilità che dal Cairo venga fornita quella cooperazione giudiziaria che in questi anni è stata a dir poco insufficiente.
Si aggiunga, per completare il quadro, che, se le indagini della magistratura italiana dipendono dagli elementi messi a disposizione da quella egiziana, non risulta neppure che l’azione autonoma di quest’ultima stia andando avanti o che possa dare qualche risultato. Del resto, che cosa aspettarsi da chi, in tre anni, ha dimostrato un certo attivismo solo quando si trattava di confezionare piste false?
La titubanza dell’Italia nel cercare la verità
Si torna alla politica, quindi, e all’azione di governo, che in questi tre anni è stata caratterizzata però da titubanza e da una debolezza di fondo. La titubanza è quella che ha visto l’Italia prima ritirare e poi rimandare l’ambasciatore presso l’Egitto, una scelta che abbiamo criticato perché, al di là sue delle motivazioni astrattamente comprensibili e condivisibili, finiva a nostro avviso col mandare un segnale sbagliato agli interlocutori egiziani. Il fatto che, nonostante gli sforzi di ottenere risultati attraverso il dialogo, la situazione sia quella descritta sopra conferma che le nostre riserve erano fondate.
Quanto alla debolezza di fondo, questa è data dalla circostanza che, mentre nelle dichiarazioni ufficiali si ribadisce continuamente la volontà di arrivare a verità e giustizia, si pretende che ciò avvenga senza alcun impatto sui rapporti politici ed economici con l’Egitto, senza pagare alcun prezzo, a costo zero.
È in fondo quello che esprimeva a suo tempo il ministro degli Esteri Angelino Alfano nell’accompagnare ogni riaffermazione dell’impegno a ottenere ‘verità per Giulio’ con la sottolineatura che l’Egitto è in ogni caso un partner ineludibile. In tal modo, otteneva l’effetto di rassicurare quel partner sul fatto che la ricerca di verità sul caso del nostro concittadino non si sarebbe mai spinta oltre un limite insuperabile, fissato dallo stesso governo italiano nell’assenza di qualunque significativa ripercussione sui rapporti tra i due Paesi.
Meglio sarebbe prendere atto del fatto che portare avanti una politica dei diritti umani – dei nostri concittadini, ma non solo – ha inevitabilmente un costo, e mettere in conto di doverlo pagare. Finora così non è stato: i diritti umani sono trattati alla stregua di una componente secondaria, facoltativa, aggiuntiva, quasi ornamentale, della nostra politica internazionale.
Diritti umani in Egitto: un panorama desolante
A essere scoraggiante, oltre alla prospettiva di ottenere in tempi brevi verità e giustizia per Giulio Regeni, è anche la situazione complessiva dei diritti umani in Egitto, in fase di ulteriore deterioramento. Alcuni giorni fa Amnesty International, nel lanciare una campagna per il rilascio dei sempre più numerosi ‘prigionieri di coscienza’ egiziani, ha definito lo spazio per il dissenso come “inesistente”. Chi esprime critiche, sui temi più diversi e usando gli strumenti più disparati, viene arrestato, tenuto in isolamento – spesso si tratta, tecnicamente, di vere e proprie sparizioni -, accusato di terrorismo e portato davanti a una corte marziale.
Tra i casi segnalati da Amnesty International vi è quello di Amal Fathy, moglie di Mohamed Lofty, presidente della Commissione egiziana per i diritti e le libertà, che ha fornito assistenza al Cairo alla famiglia di Giulio Regeni. Fermata inizialmente assieme al marito e al figlio, è stata accusata e condannata a due anni di carcere per aver denunciato in un video l’inazione delle autorità rispetto alle molestie sessuali. È ora al centro di un processo per accuse infondate, addirittura ridicole, di terrorismo.
Ritornando al caso Regeni, se la verità storica, “mettendo insieme i pezzi” e “ristabilendo la logica”, per citare Pasolini, un po’ alla volta emerge e ha i contorni di un delitto di Stato, la verità giudiziaria appare ancora lontana. Ma c’è chi, come la famiglia e la società civile italiana, non rinuncia a chiederla. Anche quest’anno ci saranno fiaccolate in tutta Italia e, alle 19.41 precise, un minuto di silenzio. Il messaggio che si vuole mandare è quello lanciato dalla madre di Giulio Regeni: “non molliamo”.