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Verso un nuovo accordo a marzo

Cina-Usa: spiragli di una fragile tregua commerciale

21 Gen 2019 - Paolo Guerrieri - Paolo Guerrieri

La tregua commerciale in atto tra Stati Uniti e Cina ha buone probabilità di trasformarsi in un formale accordo entro inizio marzo. Un fatto di per sé positivo, ma che non sancirà la fine dell’aspro confronto tra le due grandi economie mondiali, che è andato ben oltre gli scambi commerciali. È una vera sfida geopolitica a tutto campo, che rischia di aggravarsi e può arrivare a scuotere l’intero assetto economico e politico globale.

Dopo la raffica di dazi dello scorso anno, Stati Uniti e Cina hanno salutato il 2019 avviando un primo negoziato commerciale a Pechino, frutto della “tregua” firmata al G20 di Buenos Aires lo scorso dicembre dai due presidenti Donald Trump e Xi Jinping. Ogni nuova tariffa è stata pertanto congelata ed entro il 2 marzo dovrà essere ratificato un accordo commerciale tra i due Paesi.

Di ritorno al tavolo dei negoziati
Il rallentamento intervenuto nell’economia globale e i crolli delle borse cinese e americana alla fine dello scorso anno hanno convinto Washington e Pechino a sedersi al tavolo dei negoziati. Una delle più gravi minacce al proseguimento della crescita globale in corso è rappresentata in effetti dall’eventuale inasprimento della guerra commerciale tra le prime due economie mondiali.

Ma la strada per un accordo è tutt’altro che in discesa. Lo si è visto già dal primo incontro di Pechino. I commenti da parte americana sono stati molto positivi, con un tweet di Trump gonfio di ottimismo. Più cauta la reazione cinese. Anche se la notizia, fatta filtrare subito dopo gli incontri, di una visita ufficiale a Washington entro gennaio di Liu He, capo negoziatore cinese e uomo di fiducia di Xi Jinping, può essere letta come una conferma dell’interesse di Pechino al buon esito del negoziato. Molto positiva, per converso, è stata la reazione dei mercati finanziari e delle borse, che subito hanno molto apprezzato la riduzione delle tensioni.

Contrastare le politiche predatorie o bloccare l’avanzata di Pechino?
Al centro del negoziato vi sono le richieste degli americani, che hanno sulla carta due finalità: la prima, spingere la Cina ad importare di più dagli Stati Uniti e ridurre così il deficit commerciale bilaterale. La seconda, assicurare alle imprese americane un migliore accesso e trattamento sul mercato cinese, ponendo fine a una serie di misure e pratiche di Pechino considerate vessatorie – non solo dagli americani –  in tema di forzato trasferimento tecnologico, scarsa protezione della proprietà intellettuale e così via.

Il soddisfacimento del primo gruppo di richieste non presenta ostacoli di rilievo. Già in passato, il governo cinese si è più volte dichiarato disponibile ad aumentare, anche in quantità significativa, le importazioni dagli Stati Uniti di prodotti agricoli, energetici e di altro genere. Si dà per scontato, ad esempio, che i cinesi siano pronti ad acquistare, anche in tempi rapidi, ingenti quantitativi aggiuntivi di soia americana, dai 6 agli 8 milioni di tonnellate. E la credibilità di queste promesse è rafforzata dalla natura tuttora fortemente centralizzata del commercio internazionale cinese.

Le maggiori difficoltà riguardano il secondo gruppo di richieste americane, perché assai eterogeneo e venato di ambiguità. Da un lato appaiono dirette a porre fine a comportamenti di natura predatoria da parte della Cina, fortemente criticati anche da molti altri Paesi e dall’Unione europea.

Dall’altro, l’interesse sembra rivolto molto più in alto, a modificare o addirittura impedire politiche e interventi in campo industriale e tecnologico, come quelli legati al piano di sviluppo pluriennale Made in China 2025. Un piano che vuole favorire il raggiungimento, nel prossimo decennio, da parte del sistema produttivo cinese della frontiera dell’hi-tech globale, in termini di reti, intelligenza artificiale, robotica e big data. Proprio per questa sua natura strategica il governo cinese non lo ritiene negoziabile.

Un accordo che non potrà rallentare l’avanzata cinese
Mentre un accordo appare raggiungibile in tema di maggiori importazioni di prodotti americani e di eventuali modifiche di interventi, pratiche e comportamenti predatori da parte cinese, nessuna vera mediazione sembra possibile là dove le richieste americane appaiono tese per lo più a bloccare o comunque rallentare l’avanzata industriale e tecnologica della Cina.

È possibile che tutto ciò sia sufficiente per la sigla di un accordo ai primi di marzo. I timori per la ripresa in corso e la necessità di evitare un forte rallentamento dell’economia Usa di qui al 2020, anno delle presidenziali, potrebbero spingere Donald Trump ad accettare una pacificazione che non contenga significative concessioni riguardo al secondo gruppo di richieste americane, al di là di promesse poco vincolanti. Magari ricorrendo alle sue note arti di venditore per reclamizzare al grande pubblico americano il contenuto dell’accordo raggiunto con la Cina.

Anche se i paletti di Trump sono più stretti di quel che si pensi. In molti sono pronti a criticare il presidente se la tregua commerciale con la Cina servisse solo a evitare i rischi di un peggioramento della congiuntura economica, senza vere concessioni di natura strutturale. Un atteggiamento in qualche modo ostile nei confronti della Cina è oggi assai diffuso negli Stati Uniti e, oltre una vasta rappresentanza della business community, accomuna le maggioranze repubblicana e democratica del nuovo Congresso.

Lo scontro non si fermerà con la firma
Comunque andrà, si può anticipare fin da ora che un eventuale accordo commerciale non porrà certo fine all’aspro confronto tra le due grandi economie mondiali. Uno scontro non più limitato agli scambi e al disavanzo commerciale americano, ma che si è esteso a un vasto insieme di temi che interessano in primo luogo le nuove tecnologie e la supremazia tecnologica globale negli anni a venire.

In questa prospettiva, è scontato prevedere che la sfida sia destinata a prolungarsi e sotto vari aspetti ad aggravarsi. Oltre agli effetti dirompenti che potrebbe avere sull’economia globale, il rischio è anche quello – come sta mostrando la vicenda del colosso cinese delle telecomunicazioni Huawei – di tornare a dividere il mondo e i Paesi in due blocchi, come nei primi decenni del secondo dopoguerra.

Foto di copertina © D. Myles Cullen/Planet Pix via ZUMA Wire