IAI
Estradizione dalla Bolivia

Battisti: dopo l’arresto, riflettori sugli altri latitanti italiani

17 Gen 2019 - Emanuele Torre - Emanuele Torre

Lunedì 14 gennaio, l’arrivo all’aeroporto di Ciampino del Falcon 900 del governo italiano ha chiuso una questione aperta circa quarantun anni fa – era il 6 giugno 1978 – con l’omicidio a Udine del maresciallo della polizia penitenziaria Antonio Santoro. Pochi minuti dopo le 11.30 scende infatti dall’aereo Cesare Battisti, accompagnato dai poliziotti del Gom, il nucleo speciale della polizia penitenziaria italiana. Ad attendere l’ex rapinatore e terrorista del gruppo dei Proletari armati per il comunismo una folta delegazione governativa. D’altronde, il caso Battisti ha da sempre avuto una particolare risonanza mediatica. E la tendenza sembra non cambiare in occasione della cattura del terrorista, che si è trasformata, come era facilmente prevedibile, in una buona occasione propagandistica.

Il neopresidente brasiliano Jair Messias Bolsonaro e il ministro dell’Interno italiano Matteo Salvini si sono appellati al solido rapporto che li lega per prendersi il merito della riuscita dell’operazione. L’estradizione dal Brasile all’Italia era stata tuttavia già firmata dall’ex presidente Michel Temer, prima dell’insediamento dell’attuale governo brasiliano di ultradestra (e, dalla prospettiva italiana, in un caso del genere il Viminale ha un ruolo marginale rispetto ai ministeri di Giustizia ed Esteri, che invece seguono le operazioni dal principio). Che gli scontri politici del passato diventino funzionali agli scontri politici odierni, però, è una questione che può sorprendere davvero poco.

Dalla Santa Cruz de la Sierra a Oristano
La lunga fuga di Cesare Battisti termina dunque nel carcere di Massama, vicino ad Oristano, dove il detenuto verrà tenuto in isolamento almeno per i primi sei mesi della sua reclusione. Il procuratore generale di Milano, Roberto Alfonso, ha intanto assicurato che Battisti sconterà un ergastolo ostativo, che non consente alcun beneficio penitenziario, salvo in caso di collaborazione da parte del  condannato. Questione che non era scontata, dal momento che la norma inerente l’ergastolo ostativo è entrata in vigore successivamente ai fatti per cui Battisti è stato condannato. Le dichiarazioni del procuratore generale mettono un sigillo ulteriore sulla spinosa questione della condanna dell’ex terrorista italiano. L’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando aveva infatti firmato un accordo per ottenere l’estradizione di Battisti dal Brasile che riconosceva al ricercato una pena di trent’anni, dal momento che in Brasile non esiste l’ergastolo.

È stato però possibile aggirare il problema perché il decreto di espulsione è stato emesso dalla Bolivia – dove è stato arrestato e da dove è stato direttamente trasferito -, e non dal Brasile. Battisti è stato fermato da una squadra dell’Interpol nel quartiere di Urbarì nella città di Santa Cruz de la Sierra, dove si era nascosto in attesa di ricevere una risposta alla sua richiesta di asilo come rifugiato politico da parte del governo boliviano guidato dall’“indio” Evo Morales.

A tradire il “fuggitivo d’altri tempi” anche la modernità dei mezzi dell’intelligence italiana che ha utilizzato le tracce lasciate dall’Imei, il codice numerico univoco, del cellulare di Battisti. Quando Battisti si è connesso al Wi-Fi dell’aeroporto di Sinop, nella regione brasiliana del Mato Grosso, dove stava per imbarcarsi per La Paz, il suo destino è stato segnato.

Tutte le tappe del “fuggitivo d’altri tempi”
Ad aver reso Cesare Battisti un personaggio di fama internazionale sono state senza dubbio le dinamiche della sua fuga, iniziata nel 1981. Dinamiche che si sono trasformate in vere e proprie questioni internazionali. L’ex terrorista, dopo essere stato condannato per attività eversiva a 13 anni e 5 mesi nel 1981, evase dal carcere di Frosinone e fuggì prima a Parigi e poi in Messico. Rientrò nella capitale francese nel 1990, dove godé della protezione che garantisce la “dottrina Mitterand”, sebbene non ve ne fossero i presupposti.

Come specificato dall’allora presidente francese François Mitterand, l’asilo politico in Francia poteva essere concesso solo ai fuggitivi italiani che rispettassero alcune condizioni: non aver mai commesso un delitto di sangue, non essere stati condannati in via definitiva ed aver abbandonato la lotta armata. Per la giustizia italiana, il militante del Pac non rispettava le prime due condizioni per l’asilo, essendo stato condannato in via definitiva per quattro omicidi. Quando nel 2004 i giudici francesi decisero di autorizzare l’estradizione di Battisti, gli concessero la libertà provvisoria, che lo mise in condizione di scappare nuovamente.

Adesso che una delle più famose questioni legate al terrorismo italiano degli anni ’70 è chiusa, occorre ricordare che Battisti non è – o, meglio, non era – il solo del nutrito gruppo di fuggitivi degli Anni di Piombo. Certo, il suo caso è giunto a una significativa risoluzione in virtù del cambio di rotta dei nuovi quadri politici brasiliani.

Gli altri ricercati eccellenti
Ben più arduo il discorso su Alessio Casimirri, l’unico del gruppo armato del sequestro Moro che in carcere non ì ha messo piede e forse non ce lo metterà mai. Cosa dovrebbe spingere, infatti, il presidente del Nicaragua Daniel Ortega a concedere l’estradizione? Peraltro contro quello che ad oggi è, in virtù di un matrimonio, un regolare cittadino del Paese?

Forse sarebbe opportuno, approfittando dell’onda innescata dal caso Battisti, rimettere in discussione con maggiore forza i principi della dottrina Mitterand, che garantisce ancora oggi la protezione della Francia ai vari Giorgio Pietrostefani – condannato a 22 anni per l’omicidio di Luigi Calabresi -, Narciso Manenti – condannato all’ergastolo per l’omicidio del carabiniere Giuseppe Guerrieri -, Sergio Tornaghi, condannato all’ergastolo per l’omicidio del direttore del policlinico di Milano Luigi Marangoni e del maresciallo degli agenti di custodia Francesco Di Cataldo.

Resta una priorità riflettere sulla possibilità che questo arresto si traduca nell’occasione per ripensare ancora una volta le questioni di un passato prossimo e controverso, un’occasione per rivolgersi alle vittime della violenza politica ed alle loro famiglie, piuttosto che pensare ai protagonismi vari, come sembrano fare esponenti tanto del mondo giornalistico quanto di quello politico.

Foto di copertina © Alberto Lingria/Xinhua via ZUMA Wire