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La metamorfosi degli huthi

Yemen: dopo l’accordo a Stoccolma tra insorti e governo  

21 Dic 2018 - Eleonora Ardemagni - Eleonora Ardemagni

In Yemen, c’è un accordo insperato per il cessate il fuoco a Hodeida, città sul mar Rosso di 600 mila abitanti e porto strategico per l’ingresso degli aiuti umanitari: le Nazioni Unite hanno guidato i pre-negoziati in Svezia (6-13 dicembre), cui hanno partecipato sia gli insorti huthi che il governo riconosciuto dalla comunità internazionale. È un primo, significativo passo verso la ripresa del negoziato diplomatico, bloccato dal 2016: le parti si sono impegnate a riprendere i colloqui alla fine di gennaio.

Lo Yemen rimane però in bilico: i negoziatori yemeniti devono adesso tradurre, sul campo, l’accordo di Stoccolma, non privo di ambiguità semantiche e punti interrogativi. Soprattutto, i tanti attori militari presenti sembrano ormai giocare partite di ‘sopravvivenza personale’, slegate dal quadro dell’’alta politica’ e dunque difficilmente condizionabili. In un contesto così sfuggente, la metamorfosi degli huthi offre interessanti spunti di riflessione politico-culturale, militare nonché mediatica.

L’accordo di Stoccolma
Oltre al cessate il fuoco per Hodeida (che si applica anche al vicino porto di Salif e al terminal petrolifero di Ras Isa), l’intesa avvia lo scambio di 15 mila prigionieri e istituisce un comitato per sbloccare l’assedio della città di Taiz. Dopo la firma, i raid e i combattimenti sono subito ripresi a Hodeida: le Nazioni Unite hanno poi precisato che il cessate il fuoco è entrato tecnicamente in vigore solo dal 18 dicembre: ma secondo l’accordo di Stoccolma, siglato e pubblicato il 13 dicembre, esso doveva essere immediato.

Soprattutto, il documento non specifica la natura delle “forze di sicurezza locali” che si dispiegheranno a Hodeida dopo il ritiro di entrambe le fazioni armate (previsto entro 21 giorni), mentre le Nazioni Unite sosterranno l’autorità portuale per monitorare il cessate il fuoco: esse dovrebbero essere miste. Non a caso, sia gli huthi che i loro avversari sostengono versioni contrastanti in merito a chi controllerà la città: ecco perché l’ipotesi di un’escalation militare non può ancora essere scongiurata. E la guerra non si è mai interrotta in molti altri fronti del Paese.

Huthi: chi sono davvero?
L’immagine della stretta di mano tra il ministro degli esteri yemenita e il capo negoziatore degli huthi, in Svezia , dà la misura della metamorfosi del movimento degli insorti del nord. Come accaduto per tutti i gruppi insurrezionali (come Hamas e Hezbollah), la guerra ha trasformato, e in parte segmentato, la stessa identità politica degli huthi: certo, essi rivendicano ancora potere e risorse per le terre settentrionali (la loro roccaforte è Saada) marginalizzate dalla presidenza di Ali Abdullah Saleh, ma il conflitto apertosi nel 2015 ha paradossalmente nazionalizzato il loro ruolo. Infatti, il movimento sciita zaidita fondato da Husayn Al-Huthi nel 2001 ha contribuito a disgregare le istituzioni politiche e militari dello Yemen; ma oggi che gli huthi controllano la capitale Sanaa e gran parte della costa occidentale, essi hanno guadagnato un posto al tavolo delle trattative, ponendosi come attori imprescindibili.

Inoltre, anche il loro profilo sociologico è mutato. La famiglia Al-Huthi e le figure apicali del movimento-milizia non sono di origine tribale (a differenza della gran parte degli yemeniti settentrionali), ma appartengono ai sâda, l’élite religiosa zaidita che governava il nord dello Yemen durante l’imamato, fino al 1962. Tuttavia, essi hanno progressivamente guadagnato il consenso di  aree e clan a forte penetrazione tribale (qabili).

Missili, Iran e TV
L’alleanza tattica, finita nel 2017, con il blocco di potere di Saleh, ha trasformato gli huthi da attori periferici a competitor nazionali. Dal punto di vista militare, i miliziani di Saada, un tempo dediti solo alla ‘guerriglia carsica’ nelle montagne del nord, hanno imparato a usare le armi pesanti e i missili (seppur con imprecisione). Il rapporto degli insorti con l’Iran si è fatto più stretto proprio dal 2015, a riprova del fallimento strategico dell’intervento militare dell’Arabia Saudita.

Oltre alle armi, i pasdaran e Hezbollah hanno inviato addestratori militari in Yemen, anche se gli huthi continuano a essere gli anelli più esterni e autonomi del network transnazionale sciita iraniano, specie se paragonati alle milizie irachene filo-Teheran. Al-Masirah, la TV degli huthi, trasmette dalla periferia sud di Beirut controllata da Hezbollah, mentre Mohammed Ali Al-Huthi, capo del Consiglio rivoluzionario, ha persino pubblicato un op-ed sul Washington Post: la propaganda degli huthi si sta raffinando.

Mediatori e puristi
Inoltre, l’esperienza del “governo parallelo” di Sanaa, occupata dagli insorti dall’autunno 2014, ha contribuito a differenziare l’ala più mediatrice e politica del movimento Ansarullah (“partigiani di Dio”, come si definiscono gli huthi), da quella più ideologica e purista, legata alle istanze autonomiste del nord, che non vuole trattare con i sauditi (ma si può dire lo stesso di Riad nei confronti degli insorti). Chi ha visitato le zone controllate dagli huthi delinea uno ‘stato di polizia’ con check-points, repressione, arresti arbitrari e arruolamento indiscriminato di combattenti (pure tra i minori). Anche per questo, le speranze diplomatiche di Stoccolma saranno messe a dura prova in patria.