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I nodi al pettine dopo il midterm

Usa: Trump e la tombola delle Feste, Siria, Afghanistan, shutdown

24 Dic 2018 - Giampiero Gramaglia - Giampiero Gramaglia

Per Natale, Donald Trump ha fatto quaterna, il ritiro a sorpresa delle truppe di terra dalla Siria e dall’Afghanistan, le dimissioni di Mattis dopo quelle di Kelly – gli ultimi generali del suo team – e lo shutdown, cioè la serrata della pubblica amministrazione, per ottenere i soldi per fare il muro anti-migranti al confine con il Messico.

Avanti di questo passo, per Capodanno rischia di fare cinquina e magari tombola: pensa a licenziare Jerome ‘Jay’ Powell, il presidente della Federal Reserve, che gli alza i tassi d’interesse, e non gli dispiacerebbe liberarsi del procuratore speciale sul Russiagate Robert Mueller. Due mosse che farebbero deflagrare un conflitto istituzionale gravissimo, forse senza precedenti: le fonti ufficiali s’affannano a smentirle.

Sornione, ma lucido, Vladimir Putin lo ammonisce: con la denuncia del trattato sugli euromissili, gli Inf, c’è il rischio che Trump sottovaluti la minaccia di un conflitto nucleare.

Lo shutdown, il terzo in un anno
Per lo shutdown, luci accese alla Casa Bianca e luci spente sul Campidoglio nel Congresso: da ‘forzato del Natale’, il presidente, piantato in asso dalla moglie Melania e dal figlio Barron, che partono per la vacanza d’inverno in Florida, nella tenuta di Mar-a-Lago, twitta le sue pene ai suoi concittadini: ”Sto lavorando duro … per ottenere i fondi per la sicurezza dei confini” – cioè per tirare su il muro -. Si commuove solo la ‘first lady’, che torna a fargli compagnia il giorno di Natale.

Lo shutdown è un incubo, ricorrente, per gli americani. Spesso evocato, raramente concretizzato, è il blocco delle attività governative non essenziali: scatta se il Congresso non riesce ad approvare la finanziaria. Stavolta a innescarlo è stata la mancanza d’accordo tra il presidente e i democratici sui fondi per il muro alla frontiera con il Messico: un braccio di ferro in cui la rigidità delle posizioni è acuita dal fatto che, da gennaio, i democratici avranno la maggioranza alla Camera e quindi ancora più potere negoziale. Trump ha dimezzato le richieste, da 5 a 2,5 miliardi di dollari, ma il contrasto non s’è risolto.

Parziale, lo shutdown è scattato alla mezzanotte di venerdì 21 dicembre (le 06.00 del mattino del 22 in Italia). La serrata è la terza del 2018, un calvario di punture di spillo tra presidente e Congresso. Con lo shutdown, l’Amministrazione federale chiude i servizi non essenziali: circa 800 mila dipendenti federali restano senza retribuzione, ma 420 mila di essi devono lo stesso andare al lavoro perché considerati “essenziali”.

Il ritiro (parziale) dall’Afghanistan
Dopo 17 anni di guerra, Trump ordina di dimezzare la presenza militare americana in Afghanistan, un Paese grande due volte l’Italia, con 26 milioni di abitanti, montagnoso e brullo. I ‘ragazzi’ tornano a casa senza potere però sciorinare lo striscione ‘Mission accomplished’; e l’ultimo ‘caduto’ americano, finora, del conflitto è il generale James ‘cane pazzo’ Mattis.

Il segretario alla Difesa, in contrasto col presidente sul ritiro dalla Siria e manco informato di quello dall’Afghanistan, lascerà l’Amministrazione: Trump, scrive Mattis nella lettera di dimissioni, ha diritto a un capo del Pentagono che abbia “idee allineate alle sue”.

Tra conflitto e ricostruzione, gli Stati Uniti hanno speso, in Afghanistan, oltre 850 miliardi di dollari – il ritmo attuale è di circa 45 miliardi di dollari l’anno -. Complessivamente, la guerra è costata quasi mille miliardi di dollari – otto all’Italia -: 30 mila dollari circa per ogni cittadino afghano, il cui reddito medio annuo si aggira sui 600 dollari . Combattimenti, bombardamenti, attentati hanno fatto circa 150 mila vittime, di cui almeno 30 mila civili, cui si aggiungono 3.500 militari stranieri caduti – circa 3000 gli americani, 53 gli italiani -, almeno 1700 contractors di varia nazionalità e oltre 300 cooperanti.

Uno sforzo e un sacrificio immani, che non hanno portato né il consolidamento della democrazia nel Paese né l’eradicazione delle coltivazioni d’oppio né la sconfitta dei talebani. Americani e loro alleati non hanno vinto la guerra e non hanno neppure vinto “la battaglia delle menti e dei cuori”, come recitava la retorica dei primi tempi. Ma hanno capito, si spera, tra Iraq e Afghanistan, che la democrazia non si esporta con i carri armati.

L’atteggiamento americano sull’Afghanistan è stato ondivago. Che la guerra non si sarebbe vinta e che lì ci si sarebbe impantanati era definitivamente chiaro fin dal 2004. Eletto con propositi di ritiro, Barack Obama, nel 2009, attuò, invece, il ‘surge’, cioè un rafforzamento delle presenze militari americana e alleata, con l’obiettivo di creare le condizioni per andarsene. L’operazione sostanzialmente fallì: le forze furono ridotte, ma restarono circa 14 mila uomini. Che, adesso, saranno dimezzati. Sul terreno resteranno 7000 militari e i ‘contractors’, i mercenari.

Il ritiro (totale) dalla Siria
Due giorni prima di annunciare la ritirata parziale dall’Afghanistan, Trump aveva già ordinato, via Twitter, quella totale dalla Siria, perché – dice – la guerra contro l’Isis, il sedicente Stato islamico, è finita.

I militari americani sul terreno sono appena 2000, perché gli Usa quel conflitto lo hanno combattuto soprattutto per via aerea, droni, missili, raid. Il Pentagono non vorrebbe, però, abbandonare i curdi, senza i quali gli integralisti sarebbero ancora a Raqqa e a Kobane, alla mercè dei turchi: i generali lo giudicano “un tradimento”; e i curdi denunciano “la pugnalata alla schiena”.

Il passo siriano è giudicato prematuro e inopportuno dalla stampa di qualità Usa, ma è però coerente con la linea di Trump di disimpegno da tutte le aree che non ritiene vitali per gli interessi americani: “Non voglio fare il poliziotto del Medio Oriente”.

La guerra in Siria dura da sette anni e mezzo, 90 mesi: l’Isis prima e gli insorti poi l’hanno persa; e il regime controlla di nuovo gran parte del territorio. Le tre potenze vincitrici, Russia, Turchia e Iran, si sono create loro aree d’influenza. I curdi, che aspirano sempre a maggiore autonomia e sognano un loro Stato, hanno come sempre ottenuto meno di quanto si sono meritato.

Un presidente senza generali
Le decisioni di Trump e le dimissioni di Mattis, dopo quelle del capo dello staff della Casa Bianca John Kelly, lasciano il presidente senza generali: tutti quelli entrati nella sua Amministrazione – i consiglieri per la sicurezza nazionale Flynn e McMaster, Kelly e Mattis – se ne sono andati. Segno che anche gente usa alla disciplina e ad eseguire gli ordini patisce l’imprevedibilità del magnate.

James ‘cane pazzo’ Mattis era uno dei pochi ‘pezzi da novanta’ dell’Amministrazione Trump che avevano finora resistito, tenendo pure testa a Trump in più di un’occasione, anche sull’Iran – era contrario alla denuncia degli accordi sul nucleare -. Sulla Siria, i due non s’intendevano proprio: quando Trump ha ordinato azioni di forza dimostrative, bombardamenti missilistici politicamente immotivati e militarmente insignificanti, Mattis non era d’accordo e s’è sforzato di limitare i danni, scegliendo obiettivi poco sensibili e riuscendo soprattutto a evitare incidenti con i russi, che hanno nell’area una presenza d’uomini e mezzi ben più rilevante.