Usa-Iran: il ritorno dei neo-cons e la diplomazia coercitiva
Lo scorso 4 novembre, 39° anniversario dell’inizio della ‘crisi degli ostaggi’ americani a Teheran, ma anche il 10° della vittoria di Barack Obama alle elezioni presidenziali del 2008, scadevano i 180 giorni del lasso di tempo di sei mesi dato dagli Stati Uniti ai partner economici dell’Iran per azzerare le transazioni commerciali da e per il Paese, segnatamente quelle relative alle esportazioni di petrolio.
Il 5 novembre venivano reimposte le sanzioni su 700 individui, entità (incluse 50 banche e le rispettive sussidiarie) e aeromobili (nello specifico Iran Air, la compagnia aerea nazionale), nonché su circa 200 personalità legate all’industria marittima che avevano beneficiato, dopo la firma del Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa), cioè l’accordo sul nucleare tra l’Iran e i ‘5+1’ denunciato dagli Stati Uniti, della copertura giuridica offerta dagli ‘executive waivers’ presidenziali.
Mai gli Stati Uniti avevano emanato in un singolo giorno così tante misure economiche coercitive nei confronti dell’Iran, segno di come, da due anni a questa parte, il vento a Washington sia virato in direzione contraria rispetto all’atteggiamento dell’Amministrazione Obama.
I consiglieri che contano di Donald Trump
Qualsiasi decisione sul piano internazionale presa dagli Stati Uniti obbliga costantemente Washington a un esercizio di valutazione tra diverse opzioni, in cui sono presi in considerazione al contempo interessi economici, politici e militari o convinzioni ideologiche che possono far risaltare, congiuntamente o meno, talvolta il ruolo di alcuni organi, come il dipartimento di Stato o il Pentagono, talora quello di altri, come la Casa Bianca, il Senato o – ed è il caso iraniano – i think tank.
A tal proposito, un centro studi le cui idee risultano particolarmente influenti presso la Casa Bianca da due anni a questa parte è il Foundation for Defense of Democracies, da cui la dimissionaria ambasciatrice americana presso l’Onu Nikki Haley ha di recente ricevuto il premio Jeane Kirkpatrick, intitolata a un’icona neo-conservatrice che nel 1979, con un famoso articolo (Dictatorships and Double Standards), pubblicato sulla rivista Commentary, si scagliò contro quello che considerava il lassismo politico dell’allora presidente Jimmy Carter.
Il movimento neo-conservatore: origini e ideologia
Spesso identificato con le scelte militari (vengono impropriamente considerati ‘neo-conservatori’ tutti coloro che propugnano politiche basate sull’hard power), questa corrente di pensiero ha radici profonde: nacque come risposta ai movimenti studenteschi per i diritti civili negli anni fra la Great Society del presidente Lyndon B. Johnson e quelli della distensione di Henry Kissinger, consigliere per la sicurezza nazionale e segretario di Stato nell’Amministrazione Nixon, e fu da subito caratterizzato da una marcata avversione per qualsivoglia politica di avvicinamento all’Urss. Il presidente Carter era considerato, come abbiamo visto, un “wimp”, un rammollito.
Il neo-conservatorismo acquistò una maggiore capacità d’influenza durante l’Amministrazione Reagan (emblema della narrativa dicotomica bene/male, racchiusa proprio nel concetto di ‘impero del male’) e, successivamente, ebbe un ruolo ben più rilevante specie durante il primo mandato di George W. Bush. Questi, riproponendo la medesima divisione ideologico-narrativa, tramutò il concetto di ‘impero del male’ in ‘asse del male’: alcuni dei principali esponenti neo-cons di quegli anni, come Paul Wolfowitz, Dick Cheney o Richard Perle, diedero un contributo rilevante, ad esempio, alla concezione dell’operazione ‘Iraqi Freedom’, l’invasione dell’Iraq nel 2003.
Il neo-conservatorismo è un movimento particolarmente attento alla difesa delle ragioni di Israele: alcuni degli esponenti di spicco, come Norman Podhoretz ed Irving Kristol, provenivano, infatti, da famiglie di immigrati d’origine ebraico-ashkenazita insediatesi a Brooklyn, uno dei quartieri di New York. L’ideologia neo-con va di pari passo con l’eccezionalismo americano – un concetto abbracciato dalla maggior parte degli uomini politici americani, ma con sfumature diverse in termini di ciò che questo realmente comporta – e sostiene la necessità di democratizzare i regimi autoritari, specialmente in Medio Oriente.
Influenze neo-con nella politica degli Usa verso l’Iran
La corrente neo-cons, non tanto in termini di personalità quanto di idee, è oggi di nuovo avvertita in modo diverso nei confronti dell’Iran e ha acquisito una ritrovata importanza dopo l’eclissi negli anni di Obama. Con la nomina di John Bolton a consigliere per la sicurezza nazionale, poi, le tesi neo-cons hanno trovato un’eco anche fra i falchi della sicurezza Usa.
Bolton è associato all’American Enterprise Institute, un think-tank conservatore per il quale, pochi mesi prima di entrare nell’Amministrazione Trump, scriveva che “gli americani dovrebbero dichiarare pubblicamente che il loro obiettivo è porre fine alla rivoluzione islamica in Iran prima del suo 40° anniversario”. Inoltre, fece parte del Project for the New American Century, un gruppo di pressione composto da falchi della politica estera americana che nel 1998 esercitò pressioni sull’allora presidente Bill Clinton per un’azione militare contro Saddam Hussein.
Bolton è un ulteriore tassello nel mosaico più ampio del retaggio culturale (presunto o reale) cristiano-evangelico e sionista del presidente Trump, del ruolo dei think-tank d’ispirazione neo-conservatrice e della naturale affinità alla destra israeliana, insieme alla storica vicinanza all’Arabia Saudita. Un mosaico che rappresenta le linee direttrici della politica estera americana verso l’Iran.
Si può affermare che l’attuale strategia di diplomazia coercitiva sia una politica edulcorata, mitigata, del mero utilizzo dello strumento militare messo in atto nel 2003 contro l’Iraq. Se possibile, gli obiettivi sono più ‘realisti’, nella misura in cui, pur mantenendo la ferma volontà di riformare ‘democraticamente’ l’Iran, a oggi non si pensa concretamente a un intervento militare, ma si preferisce, appunto, una politica di diplomazia coercitiva che, fiaccando l’economia di Teheran ed esponendo parallelamente le evidenti lacune in materia di diritti umani del regime attraverso la public diplomacy, tenta di contenere le azioni del Paese, per far sì che il regime cambi il proprio atteggiamento ‘rivoluzionario’ nella regione (supporto a varie milizie e sviluppo di tecnologia balistica).
Effetti delle nuove sanzioni sull’economia iraniana
Secondo le previsioni della società di analisi economico-finanziaria Bernstein, nei prossimi mesi si dimezzeranno gli attuali tre milioni di barili giornalieri dell’export petrolifero iraniano, assestando un colpo alla crescita del Paese, già colpito da un’alta inflazione e dalla svalutazione del rial. La ripresa economica iraniana del 2016, dopo l’accordo sul nucleare, con una crescita del 6.4%, era princiopalmente dovuta all’aumento delle esportazioni di petrolio.
In questa situazione, la ‘guerra di attrito’ tra Washington e Teheran potrebbe logorare soprattutto l’Iran: le sanzioni pesano sulla popolazione e indeboliscono l’esecutivo moderato e la sua capacità di influenzare le azioni dell’Ircg, il corpo delle guardie della rivoluzione islamica.