Siria: gli sviluppi del conflitto e gli obiettivi dei protagonisti
Questo articolo è il seguito di quello della stessa autrice pubblicato il 30/11/2018 – Un’ulteriore fase del conflitto in Siria è in corso, protagonisti da un lato la Turchia di Erdogan, animata dalla determinazione anti-curda e da una netta propensione per i Fratelli Musulmani, e dall’altro lo scontro tra Israele/Arabia Saudita e Iran, alimentato da Trump in appoggio alle istanze israeliane, con l’obiettivo di ridimensionare il ruolo di Teheran o meglio escluderla del tutto dalla partita.
Nethanyhau ha finalmente trovato un paladino della propria causa (mancato con l’Amministrazione Obama) e il principe ereditario Mohammed bin Salman una valida sponda nella vasta partita trasversale con l’Iran che include, oltre alla Siria, lo Yemen, ma anche il Libano e l’Iraq, per il recupero di una supremazia regionale: a questo obiettivo, egli è disposto a sacrificare la causa palestinese che nel 2002 aveva ispirato l’iniziativa araba di Riad, nonché la compagine del Consiglio di Cooperazione del Golfo nello scontro con il Qatar, ‘colpevole’ di disallineamento sull’Iran e sostegno ai Fratelli Musulmani.
Dal canto suo, l’Iran ritiene di avere le carte in regola nell’adempimento degli obblighi derivanti dall’intesa nucleare (certificati almeno tre volte dalla Aiea) e nella presenza sul terreno regionale cui appartiene (da ultimo, il ministro degli Esteri Zarif: “in Medio Oriente siamo a casa nostra…”). Non è chiaro come lo scontro si articolerà, se mediante una guerra convenzionale o più probabilmente con altri mezzi che certo non mancano né ad Israele e ai sauditi né all’Iran. Del resto, non ci si attende che l’assassinio di Khashoggi il 2 ottobre a Istanbul induca Trump a un cambio di rotta rispetto alla strategia perseguita, a giudicare dalla scarica di sanzioni varata due giorni dopo in settori davvero cruciali, energia e finanza. E peraltro la Turchia di Erdogan, creando forte imbarazzo a Washington con la sua veemente denuncia di colpevolezza dei vertici sauditi in particolare di MbS, non sembra perseguire una demolizione del potenziale saudita, ma piuttosto un benestare di Washington alla sua politica anti-curda e/o al rimpatrio dell’antagonista Gulen a lungo reclamato. Dall’Arabia Saudita potrebbe inoltre attendersi un sostegno all’economia nazionale che dà segni di cedimento.
La Russia c’è, l’Europa no
Quanto alla Russia di Putin, essa per anni ha dominato la scena e, a questo stadio, considera di avere largamente conseguito i propri obiettivi, consolidare e rafforzare la presenza militare nel Mediterraneo, acquisire uno status internazionale, accrescere la popolarità interna, e non ultimo contrastare il jihadismo e relative contaminazioni nel Caucaso interno.
E’ ora alla ricerca di una exit strategy che la sollevi dagli oneri di una guerra che pesa su un’economia certo non brillante e in termini di vittime trai militari. E la sua attenzione è semmai rivolta oltre, allo scacchiere libico. Mosca è peraltro insistentemente sollecitata a frenare Assad che punta alla riconquista dell’intera Siria (anche mediante un’intesa con i curdi), a convincere Teheran a dare riscontro alle esigenze di sicurezza di Israele (cui non basta la formula dell’allontanamento di un’ottantina di km dal Golan già negoziata), a moderare le istanze anti-curde della Turchia ivi inclusa la pressione su Idlib e più oltre a collaborare con Riad per calmierare i prezzi degli idrocarburi, alla luce della prevedibile decurtazione dell’export iraniano, onde facilitare la rielezione di Trump nel 2020. E naturalmente a sostenere le Nazioni Unite per la ripresa dei negoziati di Ginevra, non appena si insedierà il nuovo inviato speciale dopo le dimissioni di Staffan De Mistura a fine novembre.
Infine, l’Europa. Che in questi anni ha subito il pesante impatto della crisi, in termini di attacchi terroristi, semi-collasso del sistema-Schengen, massiccio flusso di rifugiati contenuto solo grazie all’intesa del marzo 2016 con la Turchia. Modesto è stato finora il suo ruolo politico e sporadica la partecipazione di taluni Stati membri agli strikes della Coalizione internazionale. Ma nei confronti dell’Iran, l’Europa si è subito schierata per la validità dell’accordo nucleare, predisponendo misure di compensazione e aggiramento delle ‘sanzioni secondarie’ americane (‘Special Purpose Vehicle’, ‘Blocking Regulation’) ancorché la loro efficacia rispetto alle decisioni imprenditoriali sia tutta da verificare. Al contempo, cerca di sensibilizzare l’Iran a contenere ambizioni dense di rischi per l’intera regione. Il segnale a Washington è comunque chiaro, in nome dell’interesse primario a non esaltare le divergenze, ma anzi a lavorare per una conciliazione tra tutte le istanze interne ed esterne al paese.
Come pervenire a una stabilizzazione. Un ruolo per l’Europa?
Nelle circostanze date, la ventilata attivazione di un Comitato Costituzionale sotto l’egida dell’ONU che prefiguri gli equilibri di una nuova Siria – riprendendo le indicazioni del Piano Annan, poi replicati nella risoluzione 2254/15 – potrebbe subire i contraccolpi di uno scenario ancora incerto. Trattasi infatti di concordare chi tra i protagonisti interni siederà al tavolo negoziale.
Tra guerre, contrasti ancora aperti, e immensa tragedia per la popolazione, la Siria del passato non ha possibilità di ripristino, anche se l’integrità territoriale, ripetutamente sancita dall’Onu, dovrà essere salvaguardata se non altro per evitare un disastroso effetto domino nella regione ed oltre.
Nel corso di un periodo transitorio, si potrà immaginare una stabilizzazione basata sulla spartizione in zone influenza: a Ovest, lungo la dorsale mediterranea, un’influenza della Russia che vi manterrebbe le basi militari di Latakia e Kmeimin; a Nord-Ovest, un’influenza della Turchia con gli insediamenti militari di Al-Bab e Afrin; a Nord-Est una Entità autonoma curda presidiata dal contingente militare degli Usa (di cui Trump ha ora sancito la permanenza in funzione anti-Iran); a Sud, nell’area di Dara’a, Sweida, Kuneitra, un’influenza israelo-giordana con una eventuale garanzia politico-militare degli Usa (presenti in area e ad Al-Tanf, al confine con l’Iraq).
Ciò comporterebbe comunque una più o meno esplicita intesa tra Russia e Stati Uniti, che appare necessaria quanto aleatoria. E altresì una sinergia nei confronti dell’Iran e della folta schiera di milizie accolite, il cui insediamento Assad sarebbe invece tentato di favorire quale ‘debito di riconoscenza’ per l’appoggio ricevuto e soprattutto garanzia di forniture energetiche.
La chiave di volta, una riforma della Costituzione
In ogni caso, la chiave di volta per una stabilizzazione duratura e l’avvio di una ricostruzione risiede in una riforma della Costituzione che smantelli monopartitismo e assolutismo e inauguri nuovi equilibri entro un sistema aperto e liberale. La costellazione di etnie e confessioni religiose nel Paese (almeno una ventina, maggioranza sunnita e variegata schiera di minoranze, curdi, sciiti, cristiani armeni ortodossi e cattolici, assiri, caldei, maroniti, alawiti, ismaeliti, yazidi, etc ) è tale da sconsigliare fortemente assetti di tipo libanese e da consigliare piuttosto alti standard generali e forti garanzie per i diritti delle minoranze.
E’ altresì sconsigliata una decentralizzazione territoriale – che peraltro nemmeno l’opposizione chiede, con parziale eccezione dei curdi che, connivente Assad, hanno di fatto già acquisito una sostanziale autonomia – per evitare il rischio di frammentare il Paese e alimentare ambizioni esterne. Solo prescindendo da affiliazioni confessionali e puntando a istituzioni inclusive e rappresentative, sarà possibile individuare la strada per il futuro, incoraggiare i rifugiati al rientro, avviare la ricostruzione. Per questo aspetto, in particolare, l’Europa e gli europei potrebbero conferire un apporto sostanziale, anche con il sostegno del Consiglio d’Europa (Commissione di Venezia) che negli anni ha curato la riedizione delle Costituzioni dell’Est-Europa e dei Paesi dell’ex-Jugoslavia.
La ricostruzione non potrà aver luogo se non a condizione di un totale cessate-il-fuoco e della definizione consensuale dei nuovi assetti costituzionali, come giustamente sancito dall’Unione europea. Saranno necessari ingenti capitali (500 mld secondo stime dell’Onu), con un auspicabile impegno dell’Europa e degli europei che è bene prevedere fin d’ora. Per l’Italia in particolare, la Siria, che gravita sul Mediterraneo e conserva memoria di relazioni millenarie con le nostre sponde, rappresenta un naturale sbocco economico e commerciale da non disperdere. Il mega-progetto cinese ‘Via della Seta’, che attraversa l’Iran e scorre ai bordi di Iraq e Siria verso il Mediterraneo, potrà rappresentare un’opportunità di collaborazione.
Più oltre, stabilizzazione e ricostruzione non potranno prescindere da un meccanismo di dialogo regionale sorretto da istituzioni di riferimento (Ue, Osce) e da una consistente cooperazione in tema di connettività (infrastrutture, energia, elettricità etc) e di scambi culturali. (2 e fine)