Osce: ritorno a un ruolo di rilievo nel contenere i conflitti
Con la riunione dei ministri degli esteri che si svolge in questi giorni (5-7 dicembre) a Milano si conclude l’anno di presidenza italiana dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, l’Osce.
Nelle organizzazioni internazionali la presidenza ha un ruolo tanto più rilevante quanto più ampia ed eterogenea è la membership: è questo il caso dell’Osce, che conta 57 membri, con un comune denominatore molto più basso di quello dell’Ue o della Nato e un tasso di sfiducia assai più alto. Tocca alla presidenza, che cambia di anno in anno, smussare gli angoli, individuare iniziative per tutti condivisibili, nominare capimissione e rappresentanti speciali ottenendo il nullaosta degli ‘attori principali’, dettare l’agenda dei lavori, moderare i dibattiti.
Le decisioni collegiali sono poche e difficili da raggiungere, dato che vige la regola del consenso, in sostanza l’unanimità; quelle poche – per esempio le decisioni sul bilancio o su nuovi impegni politici o su riforme interne – richiedono un’abile mediazione da parte del chairman-in-office (il presidente-in-esercizio), al livello del rappresentante permanente e, occasionalmente, del ministro degli Esteri. Il segretario generale, che ha il vantaggio di durare in carica almeno tre anni, e in genere sei, ha compiti amministrativi e di rappresentanza esterna, ma non ha un peso politico paragonabile a quello del presidente-in-esercizio.
Se nell’Ue si è instaurato un dualismo grosso modo bilanciato fra i presidenti del Consiglio europeo e della Commissione (almeno fino al Trattato di Lisbona, che ha aggiunto la carica ora occupata da Tusk), nell’Osce abbiamo un dualismo sbilanciato.
Evoluzione dei compiti dell’Osce dal 1994 ad oggi
È la seconda volta che l’Italia si accolla l’onere della presidenza (che non è a rotazione). La prima fu nel 1994, al termine della fase di istituzionalizzazione della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (Csce), che proprio alla fine di quell’anno, al vertice di Budapest, assunse il nome di Osce (non più Conferenza, bensì Organizzazione). Era il primo anno di funzionamento del Consiglio permanente a Vienna. Lo presiedeva il dinamico ambasciatore Mario Sica, brillantemente coadiuvato da una giovane Elisabetta Belloni (oggi segretario generale della Farnesina). A quell’epoca l’Osce nascente sembrava avere un potenziale che poi si è realizzato solo in parte.
I suoi compiti principali erano di un duplice ordine: prevenire e risolvere conflitti locali e promuovere la transizione democratica nell’area post-comunista. Nel primo settore si può dire che l’azione dell’Osce ha avuto effetti apprezzabili ma poco misurabili a livello di prevenzione, soprattutto di conflitti etnici, mentre non ha avuto successo nella soluzione dei ‘conflitti congelati’ della Transnistria e del Nagorno-Karabakh, che la Russia ha tutto l’interesse a mantenere bloccati; e quello della Sud-Ossezia è stato chiuso con la secessione definitiva a seguito della guerra dell’agosto 2008.
Nel campo dell’institution building, dei diritti umani, della libertà di stampa , dell’appoggio alle Ong democratiche, le missioni sul terreno e l’Ufficio Osce per le istituzioni democratiche e i diritti dell’uomo (Odihr) continuano a svolgere un utile lavoro nei Paesi ex-comunisti, senza che si possa registrare una decisa trasformazione di quei regimi in stati di diritto. Una certa visibilità assumono di tanto in tanto solo le operazioni di monitoraggio elettorale, cui viene riconosciuto – ma non da Mosca – un alto livello di professionalità e attendibilità.
Fattori di debolezza
L’efficacia dell’azione dell’Osce incontra una serie di ostacoli, in aggiunta alla già citata regola dell’unanimità e alla natura non giuridica bensì politica degli impegni che vengono concordati nel suo seno. Anzitutto l’atteggiamento delle due grandi potenze. Da un lato Washington, contraria alla piena istituzionalizzazione attraverso un trattato e propensa a considerare l’Osce come un ‘toolbox’ (cassetta degli attrezzi) da utilizzare per scopi specifici e per denunciare le violazioni delle regole democratiche da parte della Russia e dei suoi alleati. Dall’altro Mosca, che reagisce bloccando o ostacolando le iniziative nell’ambito della ‘terza dimensione’ e ha ripetutamente minacciato sin dal 2004 di ritirarsi dall’Organizzazione in mancanza di una sua riforma radicale. Entrambe si battono regolarmente per tagli al bilancio e hanno preteso e ottenuto di contribuirvi proporzionalmente in misura inferiore ai grandi Paesi europei, fra cui l’Italia, pur condizionando pesantemente tutte le decisioni (o mancate decisioni).
Per compensare il parziale svuotamento dei compiti primari, ostacolati dal ritorno alla competizione geopolitica est-ovest, l’Osce si è cercata altre vocazioni in settori non controversi: dal controllo delle frontiere alla non-discriminazione verso ebrei, musulmani e cristiani; dalla lotta contro il traffico di esseri umani al controllo delle vendite di piccole armi (Small arms and light weapons, Salw); dalla cooperazione con i Paesi del Mediterraneo (discorsi senza nulla di concreto) all’onnipresente problematica ‘gender’. Ogni presidenza tenta di lasciare una traccia lanciando una propria iniziativa. Con la conseguenza di una perdita di ‘focus’ e della creazione di nuove cariche e comitati, nonostante la progressiva riduzione del bilancio.
Nel corso dell’anno il lavoro diplomatico a Vienna mira soprattutto a preparare alcune decisioni a se stanti e una serie di impegni nei vari campi da inserire in una dichiarazione congiunta dei ministri degli esteri in vista della loro riunione a fine novembre o inizio dicembre. Per molti anni tale documento è stato regolarmente affondato, spesso al termine di maratone notturne, a causa dell’insistenza occidentale per l’inserimento di un richiamo alle inadempienze russe rispetto agli ‘Istanbul commitments’, cioè al ritiro delle residue forze russe in Georgia e Moldova, qualche migliaio. Oggi la principale pietra di inciampo sono i paragrafi sulla ‘terza dimensione’ , indigesti per Mosca e irrinunciabili per gli americani.
Ritorno a un ruolo di rilievo nel contenimento dei conflitti
A partire dal 2014, il conflitto in Ucraina orientale ha dato una nuova ragion d’essere e una molto maggiore visibilità all’Osce, incaricata di gestire una missione di monitoraggio, ma anche un nuovo terreno di scontro fra russi e occidentali.
In queste condizioni l’ambizione della presidenza può solo essere quella di evitare un clamoroso fallimento, ottenere una buona partecipazione al livello dei titolari dei ministeri degli Esteri, portare a casa qualche decisione sia pure di modesta importanza, e dimostrare che l’Osce non ha del tutto perduto la sua ragion d’essere e merita di essere mantenuta in vita in attesa di tempi migliori.