Migranti: Ue e normalizzazione logica emergenza
La questione migratoria che l’Europa sta attualmente affrontando si sviluppò a partire dal 2011, quando, in conseguenza al divampare delle primavere arabe, un numero sempre maggiore di individui iniziò a muoversi verso l’Europa. L’incapacità degli Stati membri di far fronte ai flussi, dividendosi e ricorrendo a risposte unilaterali piuttosto che cercare una risposta comune, comportò un aggravarsi della situazione a partire dal 2015, anno in cui i flussi diretti verso l’Europa raggiunsero il loro apice, come esemplificato nel grafico sottostante.
Un’Unione divisa: i limiti dell’accordo di Dublino
L’incapacità di affrontare i flussi non fu determinata solamente dalla mancanza di solidarietà tra i Paesi membri, ma anche dai limiti che caratterizzano gli strumenti di cui l’Unione si è dotata in ambito migratorio, come esemplificato dal caso del regolamento di Dublino. Il regolamento ruota attorno al principio secondo cui lo Stato che permette l’ingresso di un richiedente asilo nel suo territorio è responsabile dell’esame della sua richiesta. Inoltre, nel caso in cui si verifichino movimenti secondari verso un altro Stato membro, la convenzione prevede il trasferimento di questi individui al Paese di primo ingresso.
Questa logica contribuì a scaricare il peso dei flussi migratori su pochi Paesi che, per una mera questione geografica, si trovarono soli a gestire l’elevato numero di arrivi: basti pensare che nel 2014 cinque stati membri gestirono il 72% delle richieste d’asilo in Europa. L’Unione europea fu messa davanti ai limiti dei propri strumenti, all’impossibilità di trovare una risposta comune basata sul principio di solidarietà e alle conseguenze che questa situazione stava avendo sull’opinione pubblica, che cominciò a percepire l’immigrazione come una delle principali minacce per l’Ue. Per questo decise di iniziare a guardare a Stati terzi, nel tentativo di muoversi verso un processo di esternalizzazione del fenomeno migratorio.
L’esternalizzazione come possibile soluzione al problema migranti
Nel 2015 l’Unione europea comprese l’importanza di trovare una soluzione per limitare i flussi diretti verso il suo territorio. La prima azione fu presa durante il vertice di La Valletta, dove il Consiglio europeo presentò l’Agenda europea sulla migrazione. L’Unione ammise di fatto il suo fallimento nella gestione interna della questione migratoria e annunciò una nuova strategia incentrata sull’azione esterna, basata su un approccio ibrido tra sviluppo e controllo delle frontiere. La prima azione messa in campo dall’Unione al fine di esternalizzare il problema, ossia bloccare i flussi migratori in modo da prevenire il subentrare della responsabilità nei confronti dei migranti, fu l’accordo tra Unione europea e Turchia del 2016.
L’accordo fu presentato dalla Commissione e dal Consiglio europeo come un importante strumento che trovava la sua origine nella difficoltà del momento che l’Unione stava attraversando e nella necessità di ricorrere a strumenti emergenziali per farvi fronte. L’accordo suscitò diverse critiche, soprattutto inerenti le condizioni dei richiedenti asilo in Turchia e la possibile violazione del principio di non respingimento (non-refoulement), ossia l’impossibilità di espellere individui aventi diritto allo status di rifugiato così come sancito nella Convenzione delle Nazioni Unite sui rifugiati del 1954. Nonostante questo, l’accordo con la Turchia portò a una forte riduzione dei flussi, come mostra il grafico sottostante, divenendo così un modello di riferimento.
La creazione del Migration Partnership Framework
La Commissione, preso atto del successo dell’accordo Ue-Turchia, decise di istituzionalizzarne il modello e così, nel quadro dell’Agenda europea sulla migrazione, presentò il Migration Partnership Framework (Mpf), ottenendo l’appoggio del Consiglio europeo, riunitosi in un vertice informale il 28 giugno 2016. Questo nuovo strumento si pone due principali obiettivi: il primo, da perseguirsi nel breve periodo, è quello di salvare il maggior numero possibile di vite nel Mediterraneo e di incrementare il numero dei rimpatri verso i paesi di origine e transito. Il secondo, da raggiungersi nel lungo periodo, si concentra invece sull’affrontare le cause scatenanti dei fenomeni migratori e sul miglioramento delle condizioni nei Paesi di origine. Dunque, uno strumento che tramite dei partenariati con i Paesi di origine e transito cerca di diminuire i flussi diretti verso l’Europa.
Tuttavia, la sua implementazione ha sollevato molti dubbi. Trattandosi di uno strumento inerente all’azione esterna dell’Unione, il Mpf dovrebbe essere regolato dall’articolo 21 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (Tfue), il quale sancisce l’importanza che l’azione dell’Unione sulla scena internazionale venga perseguita secondo i principi che ne hanno ispirato la creazione, tra cui la protezione dei diritti fondamentali. Ma andando ad analizzare la comunicazione ufficiale con cui la Commissione annunciava il Mpf, vi possiamo rintracciare una forte enfasi sul cosiddetto ‘principio di condizionalità‘, ovvero l’idea secondo cui sia necessario legare gli aiuti allo sviluppo ad incentivi positivi o negativi (come un aumento o una riduzione dei fondi allo sviluppo) a seconda che lo Stato partner collabori o meno nel rimpatrio dei migranti illegali e nel contenimento dei flussi.
Il nuovo corso dell’azione esterna dell’Ue
Inoltre, nel documento sopracitato la Commissione evidenzia come nessun’area di azione dell’Unione dovrebbe essere esentata da questo approccio al fine di dare massima rilevanza alla cooperazione in ambito migratorio. Quello a cui assistiamo è dunque la normalizzazione di un approccio inizialmente presentato come necessario a fronteggiare una situazione emergenziale e che viene ora ricondotto nella normale azione dell’Unione. Il Mpf rappresenta dunque un importante capovolgimento per l’azione esterna dell’Ue, precedentemente mirata ad utilizzare i fondi allo sviluppo al fine di far rispettare e rafforzare i diritti fondamentali nei Paesi partner e ora focalizzata quasi esclusivamente sulla riduzione dei flussi, andando in questo modo a subordinare il rispetto dei diritti fondamentali alla riduzione dei flussi migratori.
Un mutamento che può essere ricondotto all’impatto della crisi migratoria sull’Unione Europea, la quale sembra ora disposta a chiudere un occhio sulla situazione dei diritti fondamentali in alcuni dei paesi partner interessati dal Mpf come Niger, Etiopia, Senegal, Nigeria e Mali. In questo modo, l’Ue rischia però di perpetuare le violazioni e gli abusi che spingono le persone a migrare e di compromettere la sua immagine di promotrice e protettrice dei diritti umani.