Migranti: Ue, sistema d’asilo comune, la mancata riforma
Quando la Commissione europea presieduta da Jean-Claude Juncker si insediò nel 2014, il neo-presidente pose tra le priorità del suo mandato la riforma del sistema europeo comune d’asilo (Ceas). Nel documento contenente gli orientamenti politici della nuova Commissione, pubblicato il 15 giugno 2014, si trova infatti indicata la volontà di attuare una solida politica comune in materia di asilo basata su un principio di solidarietà, al fine di poter dare una risposta unitaria alla crisi migratoria che in quel periodo andava sviluppandosi.
Nel 2016 la Commissione propose i primi due pacchetti di proposte atte ad armonizzare ulteriormente le procedure di asilo tra gli Stati membri. Le riforme prospettate riguardavano la modifica di una serie di direttive (su cui il Ceas si basa), il rafforzamento del sistema Eurodac e sopratutto una riforma dello strumento che più degli altri aveva dato prova di non funzionare, contribuendo alla creazione della crisi, il regolamento di Dublino.
Nonostante l’enfasi posta da più parti (dal Parlamento europeo alla società civile) sulla necessità di riformare Dublino, mettendovi al centro un principio di solidarietà, il 4 dicembre 2018 la Commissione ha dovuto ammettere l’impossibilità di raggiungere un accordo sulla riforma, riconoscendo di fatto il parziale fallimento del progetto di riforma del sistema europeo comune d’asilo. Il commissario Dimitris Avramopoulos, responsabile per le migrazioni, ha infatti dichiarato la necessità di essere “pragmatici”, evidenziando l’importanza di riuscire almeno a raggiungere un accordo sulle riforme non conflittuali prima delle elezioni europee del prossimo maggio. Quella che viene delineandosi è dunque una riforma del Ceas parziale e ben lontana da quanto inizialmente prospettato.
La mancanza di volontà politica
La proposta di riforma si basava su un meccanismo che garantisse una redistribuzione obbligatoria dei richiedenti asilo tra gli Stati membri, in modo da alleviare la pressione sugli Stati maggiormente interessati dai flussi. Tuttavia, nei due anni in cui si è tentato di riformare Dublin,o è chiaramente emersa la mancanza di una forte volontà politica al riguardo. I più grandi oppositori della riforma sono stati i Paesi del cosiddetto gruppo di Visegrad e l’Austria, profondamente contrari ad un sistema obbligatorio di ricollocamento, che presentano come una profonda violazione della sovranità nazionale.
Inoltre, l’aumento di consensi registrato dai movimenti di estrema destra nell’ultimo periodo ha contribuito a creare un sentimento di avversione nei confronti dei flussi migratori, presentati come una grave minaccia per la sicurezza e l’identità dello Stato. Ciò ha contribuito ad aumentare l’avversione di alcuni attori politici alla riforma, soprattutto dal punto di vista di un ritorno elettorale. Di conseguenza, gli Stati membri dell’Unione hanno deciso di concentrare la loro attenzione non tanto su delle soluzioni interne all’Unione, quanto sulle possibilità di esternalizzare l’approccio al fenomeno migratorio. L’obiettivo degli Stati membri, dunque, non è più tanto di riformare il sistema europeo comune di asilo, e con esso Dublino, adottando un principio di solidarietà reale, quanto di rafforzare i controlli alle frontiere e di stipulare nuovi accordi inerenti i rimpatri con Stati terzi.
Come il regolamento di Dublino concorre alla ‘crisi migratoria’
La Convenzione di Dublino nasce come accordo tra gli Stati membri dell’Unione europea con lo scopo di gestire le richieste d’asilo. La convenzione venne stipulata attraverso una conferenza intergovernativa in quanto le politiche relative all’asilo non rientravano ancora fra le competenze dell’Unione. Essa venne tuttavia ricondotta nel quadro legislativo dell’Unione dopo l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam, nello specifico a partire dal 2003, tramite il regolamento 2003/343/CE.
Il regolamento di Dublino mira a creare un sistema che permetta l’allocazione della responsabilità per la gestione delle richieste d’asilo basandosi sul principio secondo cui lo Stato che ha permesso l’ingresso di un richiedente asilo nel suo territorio è responsabile dell’esame della sua richiesta. Inoltre, esso ha lo scopo di prevenire la simultanea richiesta di asilo in più Paesi membri: dunque, nel caso in cui si verifichino movimenti secondari verso un altro Stato membro, il sistema prevede il trasferimento di questi individui allo Stato di primo ingresso.
Uno degli elementi di maggior criticità del sistema di Dublino, e che ha più contribuito alla creazione della crisi, consiste nel fatto che la richiesta di asilo di un migrante proveniente da un Paese terzo deve essere fatta nel primo Paese dell’Unione in cui egli giunge; ed è responsabilità di quel Paese gestire le richieste e provvedere agli individui in attesa di responso. Il problema di Dublino è evidente, soprattutto per la pressione che questo esercita sugli Stati che per una mera questione geografica si trovano ad essere meta dei flussi migratori, come i casi di Grecia e Italia illustrano.
L’insuccesso di giungere ad una riforma di Dublino basata su un principio di solidarietà rappresenta una grande occasione persa per l’Unione, che, unita alle più recenti azioni perpetrate in un’ottica di esternalizzazione del fenomeno migratorio ci permette di capire quale sia oggi la logica sottostante le scelte perpetrate in quest’ambito: l’idea che non sia necessaria una maggiore integrazione a livello interno se i flussi migratori vengono tenuti fuori dall’Unione.
Tuttavia, va tenuto presente che questo tipo di politica ha importanti conseguenze sui migranti: infatti, se è vero che i flussi diretti verso l’Europa sono misti, comprendenti cioè sia migranti economici sia richiedenti asilo, è anche vero che una politica di esternalizzazione non può che aggravare ulteriormente la già difficile situazione dei richiedenti asilo.