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Osservatorio IAI/ISPI

Libia: conferenza di Palermo, il bilancio dell’Italia

12 Dic 2018 - Arturo Varvelli - Arturo Varvelli

L’idea di una conferenza internazionale sulla Libia organizzata dall’Italia è nata in occasione della visita del
premier Giuseppe Conte a Washington lo scorso luglio e, nell’immediato, ha trovato l’appoggio del
presidente degli Stati Uniti Donald Trump, favorevole a un rinnovato impegno del nostro Paese nel teatro di
crisi del Paese nordafricano. All’incontro svoltosi a Palermo il 12 e 13 novembre, tuttavia, Trump non ha
preso parte, così come diversi dei capi di Stato – da Putin a Macron – ai quali inizialmente si era pensato.

Sul fronte libico, alcuni dei leader più influenti, tra cui il presidente del Governo di Accordo nazionale
(Gna) riconosciuto dall’Onu Fayez al-Serraj, il presidente del parlamento di Tobruk Aguila Saleh Issa, il
presidente dell’Alto consiglio di Stato libico Khaled al-Mishri, hanno subito aderito. Il ‘balletto’ durato
diversi giorni sulla presenza di Khalifa Haftar, il potente generale appoggiato da Egitto, Emirati Arabi Uniti,
Francia e Russia, che controlla la Cirenaica e l’Esercito nazionale libico, si è risolto alla fine con una formula
piuttosto ambigua, nella quale il generale ha potuto sostanzialmente scegliere chi vedere bilateralmente,
evitando invece di prendere parte a sedute plenarie.

Un bilancio non positivo
A qualche settimana dalla conferenza appare necessario darne una valutazione scevra di pregiudizi,
trovando la giusta misura tra l’encomio e il disfattismo presenti nei commenti sulla stampa italiana in quella
occasione. In realtà la genesi estemporanea dell’iniziativa non doveva far illudere sull’esito dell’incontro di
Palermo sin dall’inizio: la conferenza arrivava senza il necessario, doveroso (e lungo) lavoro preparatorio.

Lo scollamento, talvolta sin troppo chiaro, tra i tempi della politica e quelli della diplomazia è apparso
piuttosto evidente in questo caso. Se i politici rispondono alle necessità dell’elettorato, talvolta smaniosi di
attivismo e volontà di imprimere una svolta o di mettersi in evidenza, la diplomazia si scontra con la realtà
dei fatti, con l’inestricabile matassa di problemi e con la necessaria capacità di individuare linee di azione,
talvolta però non sufficienti a trovare una soluzione organica a una crisi complessa come quella libica.

Più i tempi di preparazione di un’iniziativa sono brevi, più la percezione da parte degli attori internazionali è
che questa sia sostanzialmente unilaterale e messa in campo con l’unico scopo di ridare centralità all’attore
che la organizza. Se quindi l’ambizione era quella di far sedere intorno a un tavolo i grandi attori
internazionali e regionali in grado di influenzare il corso in Libia allora questa attesa è stata delusa. Come
aveva già dimostrato il vertice di Parigi del 29 maggio convocato dal presidente Emmanuel Macron,
iniziative di questo genere necessiterebbero certamente di un percorso più articolato e condiviso.

I buoni risultati della diplomazia italiana
Tuttavia, se guardiamo ai contenuti dell’incontro, la diplomazia italiana pare avere comunque ottenuto alcuni
risultati. Dal precedente vertice di Parigi l’Italia pare aver imparato che forzare i tempi è controproducente:
stabilire una data delle elezioni (il 10 dicembre) difficilmente mantenibile ha contribuito a polarizzare la
crisi ed estremizzato le posizioni politiche nel Paese.

L’Italia ha lavorato alla creazione di un consenso attorno a un nuovo percorso condiviso con le Nazioni Unite, non ha imposto una linea o nuove scadenze. Innescatosi il meccanismo di preparazione della conferenza, è stata in grado di trasformarla in qualcosa di diverso: non più un punto di svolta della crisi libica, come forse inizialmente un po’ in maniera velleitaria ci si attendeva, ma una conferenza di servizio, che ha rappresentato il rilancio della nuova roadmap delle Nazioni Unite.

Il nuovo piano per la Libia sembra dovere molto al contributo di idee e indirizzo dell’Italia, a cominciare dall’insistenza sulla ricomposizione del quadro delle istituzioni economico-finanziarie libiche, al maggior coinvolgimento degli attori militari che hanno il controllo reale del terreno e di tutte quelle parti di Paese che erano rimaste escluse precedentemente tramite la convocazione a inizio 2019 di una conferenza nazionale. Anche il dialogo bilaterale avviato con la Francia, perlomeno a livello diplomatico, nelle fasi preliminari alla conferenza, sembra dischiudere scenari un po’ più ottimistici sulla capacità di preservare gli interessi italiani in Libia.

Il progressivo mutamento di posizione dell’Italia nell’ultimo anno, e in particolare del governo Conte, che
ha scelto di aprire più chiaramente al dialogo con il generale Haftar (nuovamente in Italia pochi giorni fa),
ha il chiaro scopo di tutelarci nel caso le prossime elezioni politiche (previste ora per la primavera 2019)
registrassero una vittoria, seppur relativa, del generale o di forze a lui vicine. Tuttavia, una apertura di
questo tipo, dopo che altri attori internazionali hanno creato con lui una relazione privilegiata, dall’Egitto,
agli Emirati, alla Russia e alla Francia, sembra poter generare un crollo di credibilità sia ad est tra le
componenti più vicine a Roma, sia ad ovest tra quelle che sostengono il Gna e che hanno interpretato
l’apertura italiana come una debolezza o una tacita ammissione dell’impossibilità di sostenere a lungo la
propria strategia di supporto a al-Serraj e all’impegno delle Nazioni Unite nel Paese.

L’incontro di Palermo (lo “spirito di Palermo” come sottolineato da Conte poche settimane fa) ha quindi contribuito a far passare alcuni chiari obiettivi italiani attraverso il supporto degli stessi da parte delle Nazioni Unite, ma la posizione internazionale dell’Italia non appare uscirne rafforzata. Il “permissivismo” italiano legato alla partecipazione di Haftar a Palermo ha spazientito la delegazione turca che ha voluto dare un segnale di dissenso abbandonando i lavori. Ciò sembra chiaramente dimostrare come la “coperta” politica sia piuttosto corta se prima dei vertici non si chiariscono le questioni di fondo.

Stati Uniti assenti solo formalmente
Infine, un punto che potrebbe essere dirimente. Il tentativo di cercare di riportare gli Usa dentro la
gestione politica della crisi – seppur giocato a livello di rapporto personale Conte-Trump – è corretto e
andava percorso; tuttavia non appare sufficiente. Solo gli Stati Uniti godono di una leadership tale da poter
avere una funzione di mediazione tra gli interessi, spesso divergenti, degli attori europei; solo loro
dispongono ancora di un leverage significativo su alcuni attori regionali (molti alleati di Washington) che
hanno agito da battitori liberi fomentando il caos libico.

Permangono però, ora ancor di più, i dubbi su un reale desiderio di impegno degli Usa in una crisi che hanno sempre voluto vedere da lontano (a cominciare dal ‘leading from behind’ della presidenza Obama in occasione dell’intervento del 2011), e ancora di più con l’attuale amministrazione in cui solo James Mattis, segretario alla Difesa, ha dimostrato una volontà di andare oltre al contenimento della minaccia jihadista. Il ruolo dell’Italia nella gestione della crisi in Libia appare oggi più che mai legato alla capacità di convincimento degli amici e alleati della bontà della propria linea d’azione e alla capacità di mediazione tra interessi diversi, ma soprattutto a un presupposto di credibilità del nostro governo sulla scena internazionale.