Ecuador: la metamorfosi del Paese in una regione che cambia
Il dopo-Rafael Correa ha aperto scenari inediti in Ecuador. Il presidente Lenín Moreno, in carica dall’aprile 2017, sembra aver preso le distanze dalla linea politica tracciata dal governo del suo predecessore, alla guida del Paese andino per dieci anni (2007-2017).
Sponsorizzato dallo stesso Correa come continuatore della Revolución Ciudadana – progetto politico per un “socialismo del XXI secolo” –, Moreno ha gradualmente virato a destra, finendo per convergere sul programma del banchiere Guillermo Lasso, candidato conservatore battuto al ballottaggio con il 51% delle preferenze.
Se la tendenza a screditare l’operato di Correa si era già manifestata in più di un’occasione nel corso degli ultimi mesi, il recente deterioramento dei rapporti con Venezuela e Bolivia è l’ultimo segno di un orientamento politico teso a ridisegnare radicalmente le politiche attuate dai governi precedenti, con forti conseguenze sugli equilibri politici latino-americani e, in ultima analisi, sulle dinamiche geopolitiche globali.
I numeri della crisi migratoria in Venezuela
Le crescenti tensioni tra Ecuador e Venezuela, finora confinate al terreno politico, hanno portato allo scontro diplomatico tra i due Paesi andini. Il 19 ottobre, l’ambasciatrice del Venezuela a Quito, Carol Josefina Delgado, è stata espulsa dall’Ecuador a seguito di alcune dichiarazioni contro il presidente Moreno. Il venezuelano Jorge Rodríguez, a capo del ministero delle Comunicazioni a Caracas, aveva infatti accusato Moreno di gonfiare sistematicamente le cifre dei migranti in fuga dal Venezuela. Il governo di Caracas ha così dichiarato l’ambasciatrice ecuadoriana persona non grata, intimandole di lasciare il Paese entro 72 ore. Il Venezuela ha risposto con la stessa misura ordinando all’incaricata d’affari ecuadoriana a Caracas, Elizabeth Méndez, di lasciare il suolo venezuelano.
Secondo le ultime stime dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, l’Unhcr, sono circa 1,6 milioni i migranti che hanno abbandonato il Venezuela dal 2015, provocando “uno dei più grandi movimenti di popolazione nella storia dell’America latina”. Diretti in Perù e Cile, secondo le stesse stime sono circa 550 mila i venezuelani che sono entrati in Ecuador passando per la Colombia nel solo 2018. In media 4 mila persone al giorno varcano il confine andino attraverso il ponte di Rumichaca, che collega il comune di Ipiales, in Colombia, a Tulcán, città più settentrionale dell’Ecuador.
Correa dall’altare alla polvere
Lo scontro diplomatico tra Ecuador e Venezuela si inserisce nel contesto di un più generale disallineamento politico tra Paesi che, fino a pochi mesi fa, condividevano il progetto del “socialismo del XXI secolo”.
L’Ecuador non aveva ambasciatori nelle capitali venezuelana e boliviana da luglio, come protesta per le critiche che i presidenti dei due Paesi, Nicolás Maduro e Evo Morales, avevano rivolto a Lenín Moreno a seguito del mandato di arresto spiccato nei confronti del suo predecessore Rafael Correa.
Sull’ex presidente ecuadoriano, da allora residente in Belgio, pende infatti un mandato di cattura internazionale emesso a luglio dalla magistratura per il presunto coinvolgimento nel sequestro dell’ex deputato dell’opposizione Fernando Balta, avvenuto nel 2012 a Bogotà. Maduro e Morales avevano allora accusato Moreno di sottoporre Correa ad azioni giudiziarie con il solo fine di rimuoverlo dall’arena politica, nel contesto di una tradizione consolidata in America Latina che si basa sulla persecuzione politica contro gli ex leader.
Le successioni presidenziali in contesti populisti sono spesso problematiche se non catastrofiche.
Lenín Moreno, vice di Correa dal 2007 al 2013, sembra progressivamente allontanarsi dall’operato politico del suo predecessore, sostenendo misure improntate a una forte discontinuità con il passato.
Sponsorizzato dallo stesso Correa come continuatore del “socialismo del XXI secolo”, Moreno si impose di misura nel voto del 2017, con il 39% al primo turno e poi con il 51% al ballottaggio. Il presidente si trova però ora in aperta guerra con il suo precedessore in quella che è un’inedita crisi politica interna a Alianza País, il partito politico che ha permesso a entrambi di essere eletti e da cui Correa è uscito a gennaio.
La svolta di Moreno (e del Sudamerica)
Con l’elezione di Correa nel 2007, fra le prime misure vi fu la riforma della Costituzione. Nel dicembre 2015, Correa vi inserì anche la possibilità di rielezione senza limiti di mandati. Ciò gli avrebbe permesso di ricandidarsi dopo la parentesi Moreno e un probabile rialzo del prezzo del petrolio, risorsa cruciale per il Paese.
Ma il referendum costituzionale indetto da Moreno nel febbraio scorso ha portato il 64% dei votanti ad approvare la cancellazione della rielezione indefinita, impendendo di fatto a Correa la possibilità di correre nuovamente per la presidenza nel 2021.
Dopo aver rimosso dagli incarichi la maggioranza dei correistas approfittando dello scandalo internazionale Odebrecht, Moreno ha infine sostituito il suo vice Jorge Glas, fedelissimo di Correa, e nominato il businessman Richard Martínez come ministro dell’Economia, segnalando così la volontà di ridisegnare le politiche macroeconomiche del suo precedessore, che puntavano sul ruolo attivo dello Stato e su massicci investimenti nel settore pubblico.
Con il mutamento dell’Ecuador, la difficile situazione venezuelana e Morales fuori gioco in Bolivia – il referendum indetto da La Paz nel febbraio 2016 ha sancito che il presidente indio non potrà essere rieletto per un quarto mandato –, l’esperienza del marea rosa latino-americana sembra avviata verso una conclusione.
Dopo aver caratterizzato la regione con un netto giro a la izquierda in contrapposizione alle politiche neoliberali volute dal Washington Consensus, l’esperienza del progressismo latino si trova ora bloccata in una situazione di stallo, aggravata dalla vittoria a destra di Mauricio Macri in Argentina e dalla più recente elezione di Jair Bolsonaro in Brasile.
Seppure il Messico, con la vittoria di López Obrador a luglio, sembri porsi in netta controtendenza, la regione appare ora spostarsi verso destra. E gli occhi sono tutti puntati sulle relazioni che i diversi Paesi intratterranno con gli Usa e soprattutto con la Cina, ingombrante ma “necessaria” presenza nel subcontinente.
Foto di copertina © Xinhua via ZUMA Wire