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Da Jackson a Bush al magnate

Usa: politica mediorientale, le radici delle scelte di Trump

4 Nov 2018 - Simone Zuccarelli - Simone Zuccarelli

Nell’ultimo anno la politica mediorientale dell’Amministrazione Trump ha preso forma anche grazie a decisioni storiche e controverse come lo spostamento dell’ambasciata degli Usa in Israele a Gerusalemme, l’uscita dall’accordo sul nucleare con l’Iran e, più recentemente, il taglio dei fondi all’Autorità palestinese e all’Unrwa, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi. A dispetto di questo, delle dichiarazioni talvolta roboanti del presidente americano e dei timori di numerosi esperti, a due anni dalla vittoria elettorale di Donald Trump, e nell’imminenza del voto di midterm, la politica mediorientale degli Stati Uniti non ha subito, a mio avviso, sconvolgimenti notevoli. Al contrario, la stessa si è inserita in una linea di continuità con il passato che lascia trasparire chiaramente i suoi legami con la particolare cultura politico-strategica americana. Muovendosi dal macro al micro, infatti, è possibile collocare le radici della politica mediorientale dell’Amministrazione Trump innanzitutto proprio nella più ampia tradizione americana; secondariamente, nelle idee promosse dal Partito repubblicano negli ultimi decenni; infine, nella visione propria di Trump che talvolta è in linea con i due punti appena citati, talaltra se ne differenzia.

La tradizione americana
L’approccio trumpiano, infatti, è molto più tradizionalista rispetto a come il modo con cui lo presenta potrebbe far apparire. Trump è un presidente jacksoniano, ossia incarna quella forma di nazionalismo tipica dell’esperimento americano ed espressa iconicamente dal settimo presidente degli Stati Uniti Andrew Jackson. Le fondamenta di essa sono lo Stato-nazione, la potenza militare e lo scetticismo verso le organizzazioni e gli accordi internazionali – visti come strumenti per ingabbiare gli Stati Uniti e limitarne la sovranità.

Il jacksoniano non crede nell’esportazione del modello democratico; allo stesso tempo, è pronto a colpire con durezza chiunque minacci la sua folk community e i valori da essa incarnati. Questa è una delle ragioni per cui l’amministrazione Trump ha aumentato gli sforzi nella lotta al sedicente Stato islamico, l’Isis, ma, allo stesso tempo, ha smesso di sostenere i ribelli siriani. Ed è una delle ragioni per cui Trump ha profondamente criticato la decisione dell’amministrazione Bush di invadere l’Iraq.

Mentre l’approccio di Bush, soprattutto nel secondo mandato, era anche volto a diffondere un ideale universale – wilsoniano, anche se attraverso strumenti jacksoniani –, Trump torna a un approccio più vicino all’America delle origini. La decisione di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele e di spostarvi l’ambasciata americana ben si riflette in quanto appena detto. Come ricordato da Walter Russell Mead, infatti, il jacksonismo è la scuola di politica estera americana che più sostiene Israele, Paese profondamente ammirato per la sua capacità di resistere per decenni in un ambiente ostile.

L’influenza del Partito repubblicano
In seconda istanza, Trump sta attuando una politica mediorientale in linea con molte delle posizioni assunte negli scorsi anni dal Partito repubblicano. Il sostegno a Israele – e, al contrario, la critica verso le organizzazioni internazionali percepite come ostili allo Stato ebraico – e la postura più dura tenuta verso l’Iran e il terrorismo di matrice islamica, ad esempio, sono posizioni tradizionalmente legate al partito che rappresenta.

Per alcuni aspetti l’approccio dell’amministrazione Trump non si differenzia particolarmente da quello dell’Amministrazione di George W. Bush: era stato proprio quest’ultimo, ad esempio, a inserire l’Iran nel suo Asse del Male e ad adottare una retorica dura nei confronti dei movimenti estremisti islamici.

Il duplice bombardamento sulla Siria, poi, atto a far rispettare le linee rosse sull’uso di armi chimiche, si inserisce bene anche nel filone conservatore internazionalista, più attento ai diritti umani e alla promozione dei valori americani nel mondo.

Tuttavia, è proprio qui che l’Amministrazione Trump si differenzia di più rispetto ai predecessori sulla politica mediorientale, in quanto ha messo in disparte la retorica dell’esportazione del sistema valoriale americano adottata dai repubblicani durante gli anni di Bush Jr. A ben vedere, però, non assistiamo a un abbandono della tradizione conservatrice americana ma, piuttosto, a un recupero delle sue radici più profonde. E Trump non è che un collettore di istanze in riemersione da almeno un decennio.

L’approccio trumpiano
A i due punti appena visti si aggiunge l’approccio peculiare al 45° presidente degli Stati Uniti. Molte scelte, infatti, possono essere meglio comprese solo facendo riferimento allo stile imprenditoriale trumpiano, delineato più di trent’anni fa nel best-seller ‘The Art of the Deal’. Ad esempio, è possibile collocare i tagli dei fondi all’Autorità Palestinese e all’Unrwa in uno schema di pressione crescente volto a raggiungere ‘l’accordo del secolo’, ossia il piano di pace tra Israele e Palestina alla quale l’Amministrazione americana sta lavorando.

Ancora, Trump ha criticato innumerevoli volte la classe politica americana per essere “all talk, no action”. Ecco che il continuo riferimento del presidente al fatto che i suoi predecessori – Clinton, Bush, Obama – abbiano tutti promesso di rispettare la volontà del Congresso di spostare l’ambasciata a Gerusalemme ma mai dato seguito acquista un senso più profondo. La decisione non è soltanto l’espressione di una valutazione qualitativa a sé stante, è anche la manifestazione della volontà di dare un taglio netto rispetto a un approccio politico ritenuto inadeguato. Trump vuole apparire come un presidente che mantiene le promesse fatte, anche in politica estera – e lo stesso discorso vale, ad esempio, per l’uscita dall’accordo sul nucleare con l’Iran -.

Che cosa ci aspetta
La presidenza Trump è il risultato di un mutamento che sta avvenendo sia nel sistema internazionale, sempre più lontano dal sogno della fine della storia, sia in America, che oramai da un decennio assiste al risveglio di istanze sopite da tempo e al ritorno di un approccio legato a un’America profonda che sembrava oramai relegata alla storia.

Allo stesso tempo, Trump alimenta tale cambiamento, sia internamente agli Stati Uniti che esternamente. Queste tendenze si fanno sentire, come visto, anche in Medio Oriente ed è probabile che un simile riassestamento della politica estera americana continuerà a influenzare l’approccio di Washington verso l’area – e verso il sistema internazionale – anche negli anni a venire.