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Voto di metà mandato il 6 novembre

Usa: midterm, Trump affronta l’esame degli elettori

4 Nov 2018 - Giampiero Gramaglia - Giampiero Gramaglia

L’ultimo sondaggio Washington Post–AbcNews, prima del voto di midterm di martedì 6 novembre, dà i democratici avanti di sette punti sui repubblicani, 50 a 43%, a livello nazionale. Meno dell’11% d’un mese fa; la metà del 14% d’agosto: segno che la furibonda campagna di Donald Trump, costellata di 6420 bugie – il WP le ha contate una per una -, ha ottenuto qualche risultato. Ma, forse, ancora abbastanza perché i pronostici siano rispettati, anche perché almeno venti milioni d’elettori, un quinto circa della prevedibile affluenza, hanno già votato e non possono più cambiare opinione.

Certo, negli Usa i sondaggi nel 2016 ci hanno buggerato tutti e di brutto: “Calma!, vince Hillary”, dicevano unanimi alla vigilia; e ci ritrovammo Donald Trump alla Casa Bianca. Meglio, quindi, prenderli con beneficio d’inventario. Ma Nate Silver, il ‘mago delle previsioni’, l’uomo del sito FiveThirtyEight che è la bibbia delle elezioni, calcola che i democratici abbiano oggi 7 probabilità su 8 di conquistare la Camera, mentre il Senato dovrebbe restare repubblicano – c’è solo una chance su 6 che i democratici ce la facciano -.

Un referendum su Trump e la posta in palio tra Camera e Senato
È strano, visto che alla Camera i democratici devono ‘ribaltare’ una ventina di seggi per rovesciare la maggioranza, mentre al Senato ne basterebbero due o tre. Ma i seggi in palio al Senato sono solo 33 e per due terzi democratici. Domani, i cittadini americani rinnoveranno tutta la Camera – 435 seggi – e un terzo del Senato – appunto 33 seggi su 100 -. Si vota pure per decine di governatori e assemblee statali e una ridda di referendum e consultazioni locali.

I risultati diranno il giudizio degli elettori su quanto fin qui fatto da Trump, in chiave 2020: entrato alla Casa Bianca il 20 gennaio 2017, il magnate ha finora avuto la maggioranza sia alla Camera, dove i repubblicani hanno 235 seggi, sia al Senato, dove ne hanno 52. Però, riforma fiscale a parte, il presidente non è riuscito a realizzare alcuni punti cruciali della sua agenda elettorale interna, come lo smantellamento dell’Obamacare, la riforma sanitaria di Barack Obama, o la riforma dell’immigrazione; in due occasioni è giunto ai ferri corti con deputati e senatori, con lo shutdown, la chiusura delle Amministrazioni federali.

Il voto di midterm “è un’elezione nazionale, un referendum su Trump”, dice Lee Miringoff, direttore del Marist Institute for Public opinion che fa sondaggi per la Npr, la radio pubblica Usa. Due terzi degli elettori affermano che il presidente sarà il fattore determinante del loro voto, pro o contro.

Una campagna aspra e segnata dalla violenza
La campagna elettorale è stata ripetutamente segnata dalla violenza di destra, razzista e anti-semita: dopo una scia di lettere bomba, tutte inesplose, tra il 23 e il 25 ottobre, contro esponenti democratici e, in generale, oppositori del presidente Trump, la strage di sabato 27 nella sinagoga di Pittsburgh; e poi l’esercito – 5200 uomini, che potrebbero salire fino a 20mila – alla frontiera con il Messico per intercettare e bloccare una carovana di migranti; e il progetto d’eliminare o attenuare lo ius soli, che è in Costituzione. Senza contare le sortite di Trump sui fronti internazionali, fino alla denuncia del Trattato Inf sui cosiddetti Euromissili, che espone l’Europa e il Mondo a un rilancio della corsa agli armamenti, e alla reintroduzione delle sanzioni contro l’Iran – effettive da oggi -.

Tutta la campagna è stata aspra, cattiva: candidati che s’insultano a New York, che si lanciano epiteti in Georgia, che spendono somme record per un posto da governatore in Illinois. Il presidente è stato molto attivo, ma non tutti i candidati repubblicani ne apprezzavano l’appoggio: a un comizio in Texas, c’erano il senatore Ted Cruz, suo rivale per la nomination repubblicana, e il governatore Greg Abbott, ma il deputato John Culberson, eletto in un collegio di gente ricca e moderata, non s’è fatto vedere. E l’arrivo di Trump a Pittsburgh, dopo la strage alla sinagoga ‘L’Albero della Vita’, è stato accolto con vivaci proteste. Sull’altro fronte, è stato molto attivo Barack Obama, l’unico vero leader democratico, in attesa che emergano candidati credibili a Usa 2020.

La carta della Blexit
La Blexit è la campagna per convincere gli afro-americani (i black, appunto) ad abbandonare il partito democratico. Il movimento, lanciato in vista del midterm, è guidato da Candace Owens, commentatrice ultraconservatrice, star dei ‘social’ e fan del presidente. A disegnare il logo è stato un altro transfuga della causa nera, il rapper Kanye West, noto soprattutto perché marito di Kim Kardashian, l’influencer ‘numero uno’ negli Stati Uniti: anche Kanye è passato a Trump, che lo ha ricevuto nello Studio Ovale.

Tutto avviene sotto la regia di Turning Point Usa, di cui la Owens dirige la comunicazione e che ha appena organizzato la convention dei giovani leader neri e conservatori d’America. Se l’operazione è riuscita, lo si capirà nella notte tra martedì e mercoledì, dal computo dei suffragi, specie là dove il voto dei neri è determinante.

La Blexit potrebbe risultare la provocazione di troppo: la goccia d’acqua che fa traboccare il vaso d’un Paese raso colmo d’intolleranza e esacerbazione, il cui presidente è un ‘divisore in capo’ che aizza le tensioni, si proclama nazionalista e sdogana i suprematisti accomunando nella denuncia razzisti e anti-razzisti.

Duelli in proiezione 2020 e valanga rosa
Duelli politici, ma anche di genere, di colore, generazionali: è un arcobaleno di diversità l’arco dei candidati senatori, deputati e governatori in lizza nel voto di midterm del 6 novembre. Nell’Unione, l’appuntamento di metà mandato è tradizionalmente favorevole al partito d’opposizione, cioè che non ha la Casa Bianca: dal 1934 ad oggi – oltre 20 elezioni, in quasi un secolo -, solo tre volte il partito del presidente ha guadagnato seggi in Congresso al midterm.

Dalle urne, oltre all’assetto del Congresso nei prossimi due anni, usciranno indicazioni per i democratici verso Usa 2020. Alla ricerca di leader che mancano, l’opposizione è tentata d’andarli a pescare in universi alternativi o paralleli, tipo Oprah Winfrey, Mark Zuckerberg, George Clooney o Michael Bloomberg, la sola ipotesi concreta fra tutte queste, ex sindaco della Grande Mela, un miliardario di New York, proprio come Trump.

I politici potenziali aspiranti alla nomination democratica per la Casa Bianca sono una ventina (e, magari, il nome buono deve ancora saltare fuori): figure solide, come l’ex vice-presidente Joe Biden o la senatrice del Massachusetts , la ‘sceriffa di Wall Street’ Elizabeth Warren; e figure emergenti, come la senatrice della California Kamala Harris, aggressiva e ambiziosa, oppure il senatore del New Jersey Cory Booker, ex giocatore di football a Stanford.

Alcuni ‘presidenziabili’ si sono messi in mostra nelle audizioni per la conferma della nomina del giudice Brett Kavanaugh alla Corte Suprema, uscendone però malconci: la Harris, Booker, Amy Klobuchar (senatrice del Minnesota). Altri sono rimasti defilati, come la senatrice di New York Kirsten Gillibrand. Altri affidano al Midterm le loro possibilità d’emergere a livello nazionale, come Beto O’Rourke che in Texas sfida per il Senato il repubblicano Cruz: se vince, è lanciato; se perde, è fuori.

Il voto del 6 novembre, nelle ere fra loro confliggenti di Trump e di #Metoo, può “infrangere tabù e soffitti di cristallo e ‘rivoluzionare’ il Congresso”, dice Serena Di Ronza, corrispondente dell’ANSA dagli Usa. L’ondata rosa di candidate batte ogni record e fa impallidire il 1992, entrato nelle cronache elettorali come l’Anno delle Donne: ce ne sono in corsa 257 per Camera e Senato; e 16 sono candidate a diventare governatrici.