Usa: midterm, pareggio apre lunga campagna verso 2020
730 giorni di campagna elettorale, due anni: tanti ce ne aspettano, negli Stati Uniti, di qui a martedì 3 novembre 2020, l’Election Day. “Ma come?, dirà qualcuno, c’è appena stato il voto di midterm. Adesso, avremo il rimpasto di governo, che è già cominciato; a gennaio, s’insedierà il Congresso appena eletto; poi, un anno di schermaglie tra i democratici e il presidente, magari con prove d’impeachment; e, infine, a gennaio del 2020, inizierà la stagione delle primarie, che sarà soprattutto democratica, e, in estate, dopo le convention, la campagna elettorale vera e propria”.
Fidatevi!, sarà un’unica lunga campagna elettorale. Perché Donald Trump, in fondo, quello sa fare davvero bene: il candidato, più del presidente. L’abbiamo capito noi e l’ha capito pure lui. E perché i democratici partono da (troppo?) lontano: non hanno un leader conosciuto a livello nazionale, tranne gli impresentabili, a diverso titolo, Clinton (lui e lei) e Obama, e hanno decine di aspiranti alla nomination, che devono farsi una visibilità prima di darsi battaglia nelle primarie.
A partire dai risultati del midterm
Tutto ciò a partire dai risultati del midterm: 1 a 1, Camera ai democratici e Senato ai repubblicani; è un pareggio. Ma, poiché sotto sotto i democratici speravano nel 2 a 0, e i repubblicani lo temevano, l’impressione è che Trump abbia fatto il colpaccio in una partita che pareva persa, prima che lui scendesse in campo.
Con il voto di midterm, rispetto alle presidenziali del 2016, l’America della speranza non è tornata: resta una Trumpland impaurita, incattivita, chiusa in se stessa. Dalle urne, escono, però, frammenti di speranza, come l’affluenza molto alta: 113 milioni di votanti, il 49% degli aventi diritto – mai sopra i cento milioni in passato, a parte le presidenziali -.
E come i successi della diversità. Il numero record di donne candidate – 237 alla Camera – produce il record delle elette – oltre cento saranno deputate: il primato era 84 -, fra cui le prime musulmane al Congresso, la prima nativa americana, la più giovane mai eletta. Passa pure, in Colorado, il primo governatore apertamente gay, mentre viene sconfitta, nel Vermont, la prima candidata governatore transgender. Fra le icone di sinistra alternative all’establishment democratico sono confermati Bernie Sanders nel Vermont ed Elizabeth Warren, la sceriffa di Wall Street, nel Massachussetts.
I seggi non sono stati ancora tutti attribuiti: ci saranno dei ballottaggi, qualche riconta. Alla Camera, i democratici ne avranno oltre 230 – la maggioranza è 2018 – e i repubblicani intorno ai 200, avendone persi più di 30. Al Senato, i repubblicani ne guadagnano almeno due e arrivano di sicuro a 54 su 100. La mappa dei governatori s’è nettamente riequilibrata a vantaggio dei democratici: con tre Stati da assegnare, i democratici ne hanno 22 – sette in più – e i repubblicani 25.
Tsunami, onda, marea, increspatura
Con il midterm, i democratici riconquistano la Camera dopo otto anni, ma la loro avanzata non è uno tsunami e neppure quella ‘onda blu’ ripetutamente annunciata nei proclami della vigilia; al massimo, una modesta marea, un’ “increspatura” dice ironica la portavoce della Casa Bianca Sara Huckabee Sanders. I democratici perdono tre corse simbolo, dove sono impegnati loro astri nascenti: in Texas, Beto O’Rourke viene sconfitto dal senatore in carica Ted Cruz, che nel 2016 contese la nomination a Trump; Andrew Gillum in Florida e Stacey Abrams in Georgia falliscono l’obiettivo di diventare governatori, i primi neri nei rispettivi Stati.
Ma c’è pure chi riesce in una ‘missione impossibile’: il collegio 7 della Virginia, che è Richmond, la capitale, era appannaggio dei repubblicani dal 1970, ma l’ex agente Cia Abigail Spanberger riesce a infiammare gli elettori progressisti e batte di pochissimo il repubblicano in carica David Brat.
Trump, prima di spegnere la Fox e andare a dormire, martedì notte, twitta: “Grandissimo successo, grazie a tutti”. Non è vero, è un’esagerazione, come tutto quel che il magnate dice o fa. Il presidente fa persino una telefonata non dovuta di congratulazioni alla leader dei democratici alla Camera, Nancy Pelosi, che s’affanna a difendere la sua leadership nel suo partito: prove di dialogo?, o presa in giro? Quando si risveglia, Trump è in buona: “Ho vinto io, ho fermato l’onda blu, contro i media e i miei consiglieri, che volevano parlassi di economia, mentre io parlavo d’immigrazione. Ma ora collaboriamo”; e, ovviamente, attacca i media, che ai suoi sostenitori piace sempre.
Fra i volti simbolo di questo midterm, e della nuova mappa del potere americana, ci sono quattro donne democratiche – tutte alla Camera – e un governatore repubblicano. Alessandria Ocasio-Cortez diventa, a 29 anni, la donna più giovane mai eletta al Congresso – sta ancora pagandosi il prestito per l’Università -: per lei, il difficile era stato vincere le primarie, contro un deputato ben quotato, Joseph Crowley; il voto è una formalità, perché il Bronx è democratico. Esce dall’avventura 2016 ‘sanderista’ e ha un futuro, ma, per lei, il 2020 arriva troppo presto.
+Sharice Davids, avvocato, 38 anni, strappa un seggio in Kansas ai repubblicani e diventa la prima nativa americana Lgbt eletta al Congresso. Rashida Tlaib, figlia di immigrati dalla Palestina, eletta nel Michigan, e Ilhan Omar, di origini somale, eletta nel Minnesota, sono le prime due musulmane sul Campidoglio: Ilhan è una rifugiata africana, intende indossare l’hijab al Congresso e diventare “il peggior incubo di Donald Trump”.
Brian Kemp, 55 anni, il nuovo governatore della Georgia, battendo la Abrams, è, invece, un cocco del presidente: ce l’ha coi migranti e fa spot che paiono estratti da Mississippi Burning.
La strada verso il 2020: muro contro muro e/o collaborazione
Qualche ragione per essere su di giri, il presidente Trump ce l’ha: per lui e per i repubblicani, il voto di midterm è andato bene, “al di là di ogni previsione”, meglio di quanto non era andato a Clinton nel 1994 e ad Obama nel 2010 – Bush ne era uscito bene solo perché c’era stato l’11 Settembre -. Così, il presidente apre al dialogo con i democratici, che sono ora maggioranza alla Camera, ma li ammonisce pure: “Possono giocare al gioco delle indagini, ma noi sappiamo giocare meglio, io sono più bravo”.
Barack Obama è invece più cauto, nonostante i democratici siano avanti di 9 punti sui repubblicani nel voto popolare: un dato che il Washington Post mette in evidenza, perché è molto alto, ma che, nella prospettiva presidenziale di Usa 2020, non suona garanzia: la distanza tra progressisti e conservatori è tutta scavata nelle miniere di voti democratiche del New England e della California.
“Il nostro lavoro ora va avanti – dice Obama -: il cambiamento non può venire da una sola elezione, ma questo è un punto di partenza … Spero si torni ai valori dell’onestà e del compromesso e che si guardi a un Paese non diviso dalle sue differenze, ma legato da un comune credo”. Parole che fanno magari fischiare le orecchie a Trump, che è il campione della divisione dell’America, ma che sono anche monito per i democratici, perché non affrontino la seconda metà del mandato presidenziale votati alla contrapposizione frontale e al muro contro muro.
Trump avrà a che fare con un Congresso spaccato, con una Camera che gli farà la guerra, che potrà rallentare l’iniziativa legislativa della Casa Bianca e che potrebbe pensare d’avviare l’impeachment o di istituire commissioni d’inchieste su tutti i fronti di comportamento presidenziale discusso e discutibile, Russiagate, conflitti d’interessi, elusioni fiscali, comportamenti personali. O che potrebbe invece cercare, o accettare, il dialogo.
Le parole a caldo di Nancy Pelosi, leader dei democratici alla Camera, e di Trump fanno presagire una fase di studio, dopo l’insediamento a gennaio del nuovo Congresso. Ma non c’è da illudersi che il magnate presidente smetta di fare, nei prossimi due anni, quello che sa fare meglio e che in fondo non smette mai di fare: il candidato in campagna.
La gestione dell’Amministrazione e la ricerca di compromessi in Congresso li lascerà al suo team, che vuole rinnovare in profondità, a partire dal segretario alla Giustizia James Sessions, già sostituito, per ora provvisoriamente, da Matthew Whitaker, uno che cercherà di tenere al guinzaglio il procuratore speciale del Russiagate Robert Mueller.
Qualcosa ai democratici Trump dovrà concedere sui fronti interni ed economici, mentre l’avere dalla sua il Senato – i nuovi eletti sono più ‘trumpiani’ che repubblicani – gli consente di muoversi senza grossi imbarazzi in politica estera.
Il presidente potrà pure cercare di trarre profitto dell’incertezza che serpeggia fra i democratici dopo il midterm: non hanno un leader e neppure un candidato, anzi ne hanno troppi in pectore, addirittura decine, e tutti ancora privi di notorietà nazionale; e non hanno neppure una linea. Assecondare la polarizzazione, continuando a puntare su personalità ‘socialiste’, ‘liberal’, alternative, espressione delle minoranze, oppure cercare di tornare al centro, là dove, prima di Trump, si vincevano le elezioni?
Beto O’Rourke, sconfitto in Texas da Ted Cruz e probabilmente messo fuori gioco per il 2000, ha, sul centro, un’idea precisa: “Sulle strade del Texas, al centro ci sono solo gli armadilli morti”. Politicamente, O’Rourke trasforma in cadaveri i Clinton e pure Obama. Ma ai lati delle strade, lungo i fossi, anche nel Texas crescono solo papaveri rossi, non futuri presidenti.