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Dopo il voto del 6 novembre

Usa: midterm, democratici, un pari che sa di vittoria

15 Nov 2018 - Riccardo Alcaro - Riccardo Alcaro

A dieci giorni di distanza è possibile fare un bilancio più obiettivo dei risultati ottenuti dai democratici, il partito d’opposizione al presidente Donald Trumpnelle elezioni di midterm – cioè di metà mandato – negli Stati Uniti.

Partiamo dai dati. Ogni due anni – quindi anche a metà del mandato quadriennale del presidente, da cui il nome di midterm – gli elettori americani sono chiamati a rinnovare per intero la Camera e un terzo dei cento seggi in Senato – rispettivamente la Camera bassa (espressione della popolazione nel suo complesso) e la Camera alta (espressione dei cinquanta Stati federati) del Congresso degli Stati Uniti.

In termini di Camere, l’elezione si è conclusa con un pareggio. I repubblicani hanno mantenuto la maggioranza al Senato, che anzi potrebbero portare da 51 a 53 seggi se Florida e Mississippi, che ancora devono produrre un risultato finale, vedessero i candidati conservatori prevalere. I democratici però hanno strappato ai repubblicani la maggioranza della Camera, guadagnando per lo meno 32 seggi (dieci sono ancora da assegnare), quasi il doppio di più di quanti ne avevano bisogno per ottenere la maggioranza (218 seggi su un totale di 435).

I democratici hanno guadagnato terreno anche nella corsa per i governatori dei singoli Stati, riducendo il divario coi repubblicani da 16 a 34 (a favore di questi ultimi) a 23 a 26 (in Georgia è in corso un riconteggio dei voti).

I democratici beneficiano dell’alta affluenza, i repubblicani del  gerrymandering
Politicamente però quella subita dal partito di Trump è una sconfitta. Il presidente ha trasformato le elezioni in un referendum sul suo operato, facendo campagna su temi altamente divisivi, come l’immigrazione. Il Paese non sembra averla presa tanto bene. L’affluenza è stata quasi senza precedenti, soprattutto tra l’elettorato dei democratici. Questi ultimi hanno vinto il voto popolare (che non conta nulla in termini di seggi, ma che dice pur sempre qualcosa sulla popolarità del presidente) di oltre sette punti percentuali.

I democratici hanno aumentato i loro voti un po’ dappertutto, e spesso in maniera considerevole, ma sono svantaggiati dal fatto che nel sistema federale americano tutti gli Stati, a prescindere dalla popolazione, hanno diritto a due senatori ciascuno, e che anche alla Camera, che invece riflette più da vicino l’opinione della popolazione in generale, i repubblicani continuano a beneficiare degli effetti del gerrymandering, il famigerato sistema che consente di disperdere il voto della parte avversaria ridisegnando i collegi elettorali in maniera artificiosa. Pur essendo una pratica comune a entrambi i partiti, i repubblicani ne hanno abusato grazie al fatto che la maggioranza dei governatori degli Stati è repubblicana, e che il ridisegno dei collegi elettorali è competenza degli Stati. Per questo le sette vittorie dei democratici nelle corse governatoriali sono tanto importanti. Nel 2020, quando i collegi verranno ridisegnati in base al nuovo censo, avranno più voce in capitolo.

Il voto delle minoranze
Un altro dato incoraggiante per i democratici è che hanno guadagnato voti in settori chiave dell’elettorato americano. Le minoranze hanno votato per i democratici in massa: il margine di vantaggio sui repubblicani è dell’81% tra i neri, del 54% tra gli asiatici e del 40% tra gli ispanici. Ancora più rilevante però è che i democratici hanno ridotto lo svantaggio rispetto ai repubblicani anche nel ‘gruppo’ elettorale più ampio, quello dei bianchi (che sono anche quelli che tendono a votare con più frequenza).

Il margine di vantaggio dei democratici sui repubblicani tra le donne bianche con titolo di laurea è cresciuto dal 7% del 2016 al 20% del 2018. Anche i bianchi sotto i 29 anni hanno votato più a sinistra che a destra (il gap è di 13 punti percentuali). In conclusione, i repubblicani mantengono un vantaggio statisticamente rilevante sui democratici solo tra i bianchi (maschi e femmine) senza laurea.

Una nuova narrativa per il Partito democratico
Che lezioni possono trarre dalle midterm i democratici in vista della madre di tutte le battaglie, la sfida alla rielezione di Trump nel 2020? In queste elezioni di midterm si sono viste cose interessanti: il fatto che la riforma sanitaria di Barack Obama sia ora diventata largamente popolare e che si sia dimostrata una carta elettorale vincente; il fatto che questioni sociali come istruzione e salario minimo riscuotano consenso; e che candidati che sono espressione di minoranze, ma che non fanno della loro appartenenza a una minoranza la cifra della loro campagna elettorale, abbiano raccolto enorme seguito in Stati che oscillano tra destra e sinistra, come la Florida, o che sono addirittura a forte trazione repubblicana, come la Georgia.

Particolarmente interessante è il caso di Beto O’Rourke, che è andato molto vicino a vincere il seggio senatoriale di Ted Cruz (uno dei volti più famosi del Senato) in Texas (dove i repubblicani sono tradizionalmente molto forti). Quello che è interessante è che O’Rourke ha abbracciato il tema dell’identità, così caro a Trump, ma ne ha rovesciato i contenuti: la vera America, dice O’Rourke, è aperta all’immigrazione e al mondo e celebra la critica dell’autorità e non il culto della nazione. È come se O’Rourke dicesse che la ‘grande America’ di cui parla Trump è in realtà un’America piccola, gretta, il contrario di quello che è autenticamente americano. Questa potrebbe essere la storia che i democratici racconteranno nel 2020. In questo caso le presidenziali del 2020 – che restano apertissime – diventerebbero un confronto/scontro non solo o non tanto sulle politiche del governo, ma sull’identità dell’America.