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Nella guerra infinita, c’è una speranza?

Siria: le ragioni del conflitto e i problemi tuttora aperti

28 Nov 2018 - Laura Mirachian - Laura Mirachian

I sette anni di guerra in Siria – la guerra, come qualcuno l’ha definita, dei tre ex-imperi russo-persiano-ottomano e, aggiungerei, di un Occidente che ha dismesso le vesti di guardiano del mondo e di difensore, bene o male, dei diritti universali – confermano la nostra analisi della prima ora: che a una grave crisi di legittimità della leadership, analoga a quella che sconvolgeva altre società del mondo arabo, si sarebbe aggiunta una ancor più grave, scomposta, interferenza di protagonisti regionali e internazionali, giunti in teoria per soccorrere le variegate componenti della rivolta, ma di fatto per guadagnare ambìti spazi di influenza in un tassello cruciale di quello che fu chiamato Grande Medio Oriente. “Un pezzo di Guerra Mondiale” la definiva con infinito rammarico Papa Bergoglio, “Syria is changing the World” decretava il NY Times.  A sfatare la narrativa che si trattasse di un episodio dello scontro millenario tra sunniti e sciiti.

I fatti sono noti, così come il contesto mondiale. Sul piano interno, la frammentazione di un popolo  su cui pure gli Assad avevano saputo costruire una nazione siriana ricorrendo alle memorie degli antichi Assiri, e lo smottamento di un sistema di governo divenuto sempre più improbabile con il prorompente emergere dei ceti medi grazie al grado di sviluppo raggiunto dal Paese; sul piano internazionale, la tendenza all’introversione dell’Occidente e il suo declino relativo, il nuovo protagonismo delle potenze regionali non più pilotate dal medesimo, l’assertività della Russia di Putin alla ricerca di un riscatto nazionale, e non ultimo il fenomeno dei non-state actors al soldo dell’una o dell’altra sponda esterna, fino al tracimare irruente dell’Isis dall’Iraq nell’estate 2014.

L’Isis, nemico comune
Ed è stato appunto l’Isis, con i suoi metodi feroci, disprezzo di ogni diritto umano, potenziale altamente sovversivo riassunto in un neo-Califfato in grado di travalicare confini, travolgere leaderships e contaminare l’Occidente, che ha risvegliato le coscienze internazionali in nome di un comune nemico da abbattere. Che ha facilitato la necessaria sinergia tra servizi di intelligence russi e americani, che ha indotto i turchi a ripiegare dall’obiettivo massimalistico di influenza sull’intero territorio siriano a quello minimo di allontanare i curdi dai propri confini, che ha convinto i protagonisti esterni a collaborare per sgomberare il campo da un intruso che avrebbe sgominato le ambizioni di tutti, e che da ultimo ha indotto a sostenere (o tollerare) Assad coloro che avevano immaginato di scalzarlo.

Ci sono voluti oltre sei anni, fino alla riconquista di Raqqa nell’autunno 2017. Ma abbattere l’Isis, peraltro ancora annidata soprattutto nell’area di Deir-er-Zoor, non significa pacificare la Siria. Rimangono ad oggi tutti i nodi cruciali di questi anni: quali gruppi combattenti considerare ‘terroristi’ (la risoluzione anti-terrorismo 2253/15 evita di nominarli, limitandosi a citare Al-Qaida e gli “affiliati”) e come separarli dall’opposizione moderata; se accordare o meno ad Assad, dopo la sua ‘restaurazione’, l’impunità per crimini di guerra, e quale porzione di Siria affidargli; quale il destino dei curdi del Rojava che a lungo hanno costituito l’efficace fanteria dei raids americani. L’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca a Washington ha ulteriormente scompaginato lo scenario introducendovi nuove, gravi complicanze, ed esaltando divergenze trai protagonisti esterni rimaste latenti.

Fasi del conflitto
La vicenda siriana si può riassumere nelle seguenti fasi:

  • 2011-2013: sono gli anni dello slogan “Assad se ne deve andare”, del sostegno dell’Occidente ai cosiddetti Friends of Syria, regolarmente riuniti nelle nostre capitali, gli anni delle prime clamorosamente disattese risoluzioni Onu sul cessate-il-fuoco, e del Piano del compianto Kofi Annan, che già nel 2012 prefigurava il coinvolgimento di tutte le componenti interne a un tavolo di negoziato inteso a  definire una nuova Costituzione e ad organizzare elezioni generali;
  • Da giugno 2014: l’invasione dell’Isis, l’insediamento di un quartiere generale a Raqqa, la rapida espansione nell’80% del territorio lungo le zone fertili dell’Eufrate fino all’area petrolifera di Deir-er-Zoor. Si inaugura una gestione securitaria della crisi, di fatto emarginando ogni processo politico: entra in scena la coalizione anti-terrorismo a guida americana (settembre 2014), e successivamente la Russia in soccorso ad Assad (settembre 2015); è anche l’anno dello sdoganamento dell’Iran con l’intesa nucleare Joint Comprehensive Plan of Action (agosto 2015), entro il disegno promosso da Obama di riequilibrio delle influenze in area che avrebbe assegnato anche a Teheran un ruolo nella definizione di nuovi assetti regionali;
  • Dall’estate 2016: la riconquista di Aleppo segna il punto di svolta a favore dell’avanzata di Assad, e apre la strada al processo di Astana, che conferisce alla Russia un  ruolo preminente, non solo militare ma politico, e rafforza l’alleanza della triade Russia-Turchia-Iran; ne consegue l’accordo sul cessate-il-fuoco in quattro de-conflicting zones (Idlib al centro-nord, Homs al centro, Eastern Damascus, zona Sud ai confini con Giordania e Israele, maggio 2017), inteso a consolidare il controllo territoriale di Assad. Ma il suo funzionamento si rivelerà solo parziale, tanto che l’area di Idlib rimane contesa dai combattenti filo-turchi (infiltrati da jihadisti) tramite i quali Ankara cerca di estendere la propria presenza oltre confine ottenuta, grazie alla connivenza di russi e americani, con due offensive militari (gennaio 2017 El Bab, Jarablus e di nuovo gennaio 2018 Afrin);
  • Dal 2017: avvio della gestione Trump che, in appoggio alle istanze di Israele, punta sulle ambizioni saudite incoraggiando una sinergia Tel Aviv-Riad in funzione anti-Iran; Trump dichiara l’Iran “the most destabilising factor in the Middle East”, e denuncia l’intesa nucleare del 2015; Tel Aviv, rimasta per anni molto prudente sulle dinamiche siriane, intensifica gli attacchi in Siria con l’obiettivo di sgomberare il campo dalla presenza di Iran e Hezbollah. Un obiettivo difficile da conseguire, anche scontando l’indebolimento del paese indotto dalle pesanti sanzioni americane, e che rischia  effetti controproducenti ivi inclusa la ripresa dei programmi nucleari di Teheran. L’Iran spera nei paracaduti europei, ma guarda anche ad oriente per una maggiore saldatura con Russia e Cina. (1 – continua)