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Verso uno Stato con molta fatica

MO: la debolezza del fronte palestinese tra Hamas e Anp

22 Nov 2018 - Pietro Baldelli - Pietro Baldelli

Il conflitto israelo-palestinese è tornato a infiammarsi più volte nell’ultimo anno. La decisione di Donald  Trump di spostare a Gerusalemme l’ambasciata americana ha dato inizio a una fase di forti tensioni, soprattutto al confine tra Israele e la Striscia di Gaza. Se l’inflessibile risposta israeliana si inserisce nella tradizionale strategia di un Paese che fa della difesa avanzata l’unica opzione perseguibile, il fronte palestinese ha palesato una volta di più le debolezze e le contraddizioni interne. Una fragilità che tutt’ora impedisce ai palestinesi di ottenere un proprio Stato indipendente.

Una leadership divisa
Anzi tutto, sono sempre più evidenti l’inadeguatezza e le divisioni della leadership palestinese, incapace di fare fronte comune e di presentare una posizione unitaria da spendere nei negoziati con Israele. Da una parte Abu Mazen continua a guidare l’Autorità nazionale palestinese (Anp) privo di un’effettiva legittimazione popolare.

Eletto nel 2005 come successore di Yasser Arafat, continua a governare nonostante il suo mandato si sia concluso nel 2009. Nel 2016 è stato riconfermato alla guida di Al-Fatah, sconfiggendo il suo principale rivale Mohammed Dahlan grazie ai guai giudiziari di quest’ultimo. Abu Mazen deve fare i conti anche con i crescenti problemi di salute che minano la sua tenuta fisica e mentale. La sua immagine internazionale è stata, infine, compromessa dalle dichiarazioni colme di antisemitismo di cui è stato protagonista negli ultimi mesi.

Dall’altra parte Hamas, al potere a Gaza, si è dimostrato incapace di dismettere la lotta armata contro Israele, mantenendo la sua doppia natura di partito politico e movimento para-militare. Sebbene nel maggio 2017, in occasione della Conferenza di Doha, si sia tentato un parziale emendamento allo Statuto del 1988, Hamas non ha ancora riconosciuto il diritto all’esistenza di Israele, ponendosi quindi al di fuori della posizione ufficiale palestinese espressa con gli Accordi di Oslo. In occasione delle manifestazioni di protesta contro la decisione sull’ambasciata americana, Hamas si è posto alla guida di azioni violente che ne hanno compromesso l’iniziale natura pacifica.

Il ruolo di Iran ed Egitto
Inoltre si ritiene che dietro la rinnovata aggressività di Hamas ci sia un ritrovato feeling con l’Iran. Dopo la rottura dovuta alla postura anti-Assad di Hamas nel conflitto siriano, i due attori si stanno progressivamente riavvicinando, seppure per ragioni tattiche. L’Iran ha interesse ad alleggerire la pressione israeliana nel sud siriano e potenzialmente potrebbe intravedere nei territori palestinesi un nuovo fronte della più ampia strategia della deterrenza asimmetrica, caposaldo della sua dottrina militare.

Una ‘iranizzazione’ di Hamas invece, seppure ostacolata da profonde differenze ideologico-religiose, può risultare più fattibile a causa del recente raffreddamento del legame con la galassia della Fratellanza musulmana, dettato dalla volontà di allentare la pressione dell’Egitto. Quest’ultimo, infatti, guida dall’autunno 2017 i negoziati di pace tra Anp e Hamas, i cui rapporti si sono interrotti nel 2007 a seguito della presa militare di Gaza da parte di Hamas.

La sfida di Hamas all’Anp
La difficoltà di arrivare a un compromesso è dettata dalla natura della sfida che Hamas porta all’Anp. Non un confronto di natura politica, come aveva fatto sino alle elezioni legislative del 2006 alla quali aveva partecipato. Bensì uno di livello superiore, una sfida sul piano istituzionale, mettendo in discussione la legittimità dell’intero impianto proto-statuale uscito dagli Accordi di Oslo. Il risultato paradossale è l’incapacità di creare uno Stato palestinese a fronte di una doppia entità statuale sedimentatasi tra Gaza e la Cisgiordania.

Tale frattura è la conseguenza di un altro fattore di debolezza del fronte palestinese: l’assenza di una società unitaria. Esistono infatti diverse società palestinesi. In Cisgiordania, per esempio, è radicata una corposa élite di commercianti, businessmen e intellettuali benestanti che non hanno alcun interesse a modificare lo status quo. A Gaza, invece, la popolazione è molto più povera, dipendente dal welfare state impiantato da Hamas e dagli aiuti umanitari. Poi ci sono i rifugiati palestinesi presenti negli Stati limitrofi (Libano, Giordania, Siria, Egitto), a loro volta divisi tra coloro che vivono ancora nei campi e quelli che hanno ottenuto la cittadinanza dello Stato ospitante, risultando parzialmente integrati. Infine, vi sono i palestinesi della diaspora, presenti soprattutto negli Usa e in Europa, e gli arabi israeliani che oggi rappresentano il 20 % della popolazione di Israele.

Tale frammentazione ha impedito ulteriormente la produzione di un adeguato livello di coesione statale di cui le società arabe, a differenza della tradizione turca o persiana, già tendenzialmente difettano. La lunga traiettoria politica di Arafat sembrava aver consolidato un senso delle istituzioni che invece si è rivelato alla sua morte pressoché inesistente. Il leader palestinese, infatti, ha fallito nel tentativo di convertire la fedeltà verso la propria persona in un senso di appartenenza verso la carica istituzionale da lui ricoperta – tentativo svolto attraverso il progressivo passaggio di poteri dall’Olp all’Anp alla fine degli Anni ‘90.

Per tale motivo alla morte di Arafat il fronte palestinese è tornato a disgregarsi, rallentando notevolmente il percorso di costruzione dello Stato che i palestinesi avevano intrapreso. Dimostrando con ciò che le divisioni e le contraddizioni interne sono il primo nemico che i palestinesi stessi dovranno sconfiggere se vorranno portare a compimento il proprio progetto statuale.