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Leader, elezioni, ruolo Italia

Libia: Palermo, più interrogativi che risposte

18 Nov 2018 - Mario Arpino - Mario Arpino

Dalla Conferenza di Palermo sulla Libia nessuno si aspettava risultati immediati, tanto meno i diretti interessati. Infatti, due giorni dopo la conclusione per le strade della periferia sud di Tripoli si combatteva come prima. L’Italia ha onestamente assolto i suoi doveri; Khalifa Haftar ha fatto il possibile per apparire l’uomo chiave; il ‘premier dell’Onu’ Fayez al-Sarraj ha fatto, al solito, la sua evanescente presenza.

Il ‘generalissimo’, entrato in scena con sussiego, si è comportato come il dominus della situazione ed è riuscito a dimostrare di esserlo per davvero. Nei prodromi lontani e vicini, prima aveva attaccato la nostra politica, facendo sapere che al primo sgarbo avrebbe bombardato la nostra flotta. Successivamente, e senza averne titolo, aveva dichiarato il nostro Ambasciatore a Tripoli “persona non gradita”. Infine, prima di decidere di partire, si è consultato con i suoi alti protettori, a Mosca e al Cairo, mentre con Parigi qualcosa deve essere andato storto.

Da ultimo, ha finto di lasciare tutti in sospeso fino all’ultimo minuto. Poi, in serata, ha fatto ciò che aveva deciso fin dall’inizio di questa pantomima: si è presentato a Palermo, con volo di andata e ritorno su aereo Vip carinamente offerto dal governo italiano. Il giorno dopo ha stretto la mano a Sarraj, dedicando questo ‘regalo’ al volonteroso Conte.

Come va interpretato questo gesto? Un’apertura buona solo per la foto, e per celebrare in pubblico, dall’alto, la propria condiscendenza e benevolenza.

Haftar dice che riconoscerà il ruolo di Sarraj fino alle elezioni
Ha detto così, ma non è proprio certo che lo abbia anche pensato. In realtà sa benissimo, come tutti, compresi l’inviato dell’Onu Ghassam e l’ineffabile presidente francese Macron, che le condizioni per le elezioni ancora non ci sono e che con fatica e pazienza devono ancora essere create (supposto che qualcuno, oltre la piccola borghesia mercantile di Tripoli, le voglia davvero). E’ da tempo evidente che Haftar mira al doppiopetto grigio di primo ministro plus, e non a quella ornata divisa da felmaresciallo che, a ogni buon conto, si è già fatto assegnare.

Perché dovrebbe bruciarsi prendendo l’iniziativa per delle elezioni al momento impossibili, oltre che inutili? Meglio lasciare cuocere a fuoco lento in questo faticoso esercizio lo sventurato Sarraj, che prima o poi farà un passo falso e cadrà da solo. O, si può ipotizzare, per mano di coloro che gli vengono accreditati come amici, quei Fratelli Musulmani che ora lo appoggiano. Solo allora, ma dopo il misfatto, il generalissimo ritroverà il suo momento (forse definitivo) da protagonista.

Le elezioni unificanti, prima o poi, ci saranno davvero?
E’ tutto da vedere. Il sud, per il momento, è ancora regno incontrastato di islamisti radicali e mercanti di uomini. Come la Gallia di Cesare, Lybia divisa est in partes tres. Solo i Romani, e per un breve periodo, erano riusciti a unificare Tripolitania e Cirenaica. Il Fezzan di allora era etichettato hic sunt leones, e, a ben vedere, così è rimasto. C’era poi quasi riuscito, anche se per breve periodo, quel grand’uomo che è stato il governatore Italo Balbo. L’impresa, senza troppe elezioni di mezzo, era invece riuscita per quasi quarant’anni a Muhammar Gheddafi, ma l’Occidente democratico nel 2011 ha posto la parola fin alla sua avventura terrena.

C’è anche chi dice che le elezioni in Libia siano impossibili, ma la realtà ci ha dimostrato che non è affatto vero. Nelle elezioni del luglio 2012 (non molto dopo l’assassinio di Gheddafi) il popolo, forse incuriosito per la novità, era stato entusiasta di andare a votare in massa. Con grande sollievo dell’Occidente, il voto popolare che aveva eletto il primo Parlamento aveva assegnato la vittoria alla formazione così detta ‘liberale’ di Mahmoud Jibril, mettendo nell’angolo Fratelli Musulmani ed estremisti filo–qaedisti. Ma la sconfitta non è stata accettata e si è creato il caos attuale.

Proprio quello che la Conferenza di Palermo mirava ad acquietare prima di nuove elezioni. Il laicissimo Haftar aveva cercato, con l’operazione Alba, di ripristinare la sua normalizzazione, in parte riuscendovi. Oggi, il popolo libico ha solo bisogno di qualcuno o qualcosa che gli restituisca speranza e fiducia.

Un bilancio per l’Italia
Al di là delle strette di mano di facciata, l’Italia a Palermo ha fatto ciò che doveva (e voleva), uscendo dignitosamente bene da un Vertice forse non sufficientemente inclusivo della componente libica. Il primo ministro Conte ed il ministro degli Esteri Moavero, assicurando lo svolgimento di un vertice breve, fluido ed in sicurezza, hanno certamente guadagnato dei punti. Però è stato anche un risiko, perché se tutto fallisse difficilmente ci si offrirebbe una seconda possibilità e l’affaire passerebbe di mano.

L’investitura conferita da Trump al Governo italiano (non si comprende a quale titolo) ha certamente contribuito, ma gli attori di rilievo a Palermo sono stati la Russia, che con la delegazione più importante ha confermato di guardare al Mediterraneo con rinnovata attenzione, e l’Egitto, con l’influente presidente al-Sisi. I rappresentanti della Turchia dello spocchioso Erdogan, stizziti, hanno battuto in ritirata (e qui occorrerà ricucire), mentre la Francia per il momento sembra avere leggermente abbassato la cresta, in attesa di nuove occasioni.

Ah!, dimenticavamo: c’era anche l’Unione europea, ma non se ne sono notati segnali registrabili. Pur essendo presente con personaggi di spicco, come l’Alto Rappresentante Mogherini ed il presidente del Consiglio Tusk, la Ue, in assenza di un comunicato ufficiale, certamente avrà preso buona nota di tutto, ma senza dare segno di grande propositività.