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Negoziati agli sgoccioli

Brexit: i 27 dell’Ue compatti verso divorzio da Gran Bretagna

22 Nov 2018 - Gianni Bonvicini - Gianni Bonvicini

Il Consiglio europeo convocato il 25 novembre ha certamente di straordinario il fatto che si tiene di domenica, cosa non abituale per i capi di Stato e di governo dell’Unione europea. Ma in realtà di straordinario ha ben altro: rappresenta l’avvio formale del divorzio della Gran Bretagna dall’Unione europea e il primo caso di abbandono dell’Ue da parte di un Paese membro. Un autentico colpo politico e di immagine per l’Unione. Eppure, dopo lo shock del referendum sulla Brexit del giugno 2016 e la richiesta britannica di circa un anno e mezzo fa di attivazione dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona, gli altri 27 Paesi membri dell’Ue hanno dato mostra di un consenso silenzioso ma unitario su questo drammatico abbandono.

Divisi su quasi tutto, dalla politica di immigrazione alle misure sanzionatorie contro la Russia, dal raddoppio della pipeline del North Stream alle decisioni per il completamento dell’Unione bancaria, i 27 non hanno dimostrato rilevanti dissensi sul procedere del negoziato con Londra, condotto in loro nome da Michel Barnier. Neppure la recente minaccia del premier spagnolo Pedro Sànchez di bloccare la bozza di accordo sul tavolo del Consiglio europeo, nel caso non si tenga separato lo statuto di Gibilterra dai futuri rapporti Ue / Gran Bretagna, sembra modificare il quadro di rassegnato consenso sul distacco definitivo di Londra da Bruxelles. Quindi, fatte salve sorprese o ostacoli dell’ultimo minuto sulla stesura della dichiarazione politica sulle relazioni future, l’approvazione del distacco da parte europea sembra a portata di mano.

Eppure qui non sono in gioco solo i nuovi rapporti finanziari e commerciali fra il blocco dei 27 dell’Ue e Londra, ma il destino stesso del processo di integrazione europea che da questo divorzio esce certamente modificato se non addirittura ridimensionato.

Consenso apparentemente unitario
Si possono infatti intravvedere diverse ragioni alla base di questo consenso apparentemente unitario e delineare di conseguenza scenari non proprio univoci sul futuro dell’Unione. Una prima ragione è che la Brexit sia stata interpretata come un problema squisitamente interno alla Gran Bretagna, su cui il resto dell’Unione aveva poco o niente da dire: l’unica preoccupazione per Bruxelles era quindi quella di ottenere il massimo da Londra sia in termini finanziari che di accordi futuri.

Sembra che nelle 585 pagine della bozza di accordo di divorzio questo obiettivo favorevole al resto dell’Unione sia stato raggiunto, e che i problemi siano tutti sulle spalle di Teresa May. D’altronde questo punto di vista si basa anche su una ‘diversità’ inglese, che di fatto ha visto quel Paese sempre sulla difensiva rispetto ai progressi dell’integrazione europea: fuori dall’Euro, fuori da Schengen, fuori dalla carta sociale e così via. Una serie di opting out che vengono di fatto confermati dalla decisione di andarsene del tutto.

Ma se ci si limita a questa spiegazione, allora si rischia di aprire la strada ad altre exit, dal momento che la questione britannica ha messo sul tavolo l’insufficienza del sistema di governance europea, talmente precario e con rischi di involuzione istituzionale, che di fatto rende plausibile l’ipotesi di una progressiva disgregazione comunitaria.

Meno Londra, più integrazione?
Ben diversa sarebbe la situazione se fosse valida un’altra spiegazione sull’inaspettato consenso fra i 27, e cioè che l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue possa aprire la strada ad un balzo in avanti dell’integrazione. Alcuni segnali si potrebbero intravvedere nelle proposte franco-tedesche sulla difesa europea o sul voto a maggioranza qualificata nel campo della politica estera o ancora sull’idea di rafforzare l’Eurozona con un bilancio ad hoc per i suoi membri.

In altre parole, liberi dal peso di una Londra sempre con il freno a mano tirato e in posizioni di retroguardia (salvo il periodo irripetibile di Tony Blair), gli altri Paesi europei avrebbero finalmente l’occasione di muoversi verso nuovi progetti di maggiore integrazione. Su questa linea si è schierato lo stesso leader spagnolo Sànchez, tanto scettico su Gibilterra quanto pronto ad allearsi con Francia e Germania per il grande balzo in avanti.

Ma gli altri Paesi che dicono? L’Italia ad esempio è completamente assente (se non addirittura ostile) rispetto a questo dibattito, al punto che Sànchez propone apertamente la Spagna come credibile sostituto di un’Italia populista e anti-europea. Ostilità che si può estendere anche ai Paesi del Gruppo di Visegrad, forse con l’eccezione della Polonia sulla difesa europea (in chiave anti russa). Difficile se non impossibile, quindi, che dall’uscita di Londra nasca una forte spinta per procedere oltre l’attuale stadio di integrazione. A meno che non si torni alla vecchia ipotesi di un’Unione a più velocità con un gruppo centrale che si stacchi da tutti gli altri e decida di adottare un nuovo trattato separato. Ipotesi oggi politicamente irrealistica se non si vuole spaccare definitivamente l’Unione alla vigilia delle elezioni del Parlamento europeo. Ma idea che potrà eventualmente ridecollare una volta che siano più chiari i rapporti di forza nel nuovo Parlamento e la reale volontà dei Paesi membri.

Il consenso fra i 27 in tema di Brexit non deve quindi ingannare: si tratta ancora una volta di un consenso sul minimo comune denominatore, quello cioè di tenere in piedi un’Unione ancora utile economicamente a quasi tutti. Ma lo status quo dopo il distacco definitivo della Gran Bretagna non potrà durare ancora a lungo. La questione dell’insufficienza del ‘governo’ europeo rimane intatta. Anzi piuttosto ammaccata in termini di immagine e di sostanza.

In fondo l’exit britannico non è solo un grave danno per il futuro di Londra ma per la stessa Unione. Se non si riuscirà ad andare oltre questo ambiguo consenso a 27 senza aprire una vera e propria stagione riformista, allora anche l’Unione subirà le conseguenze negative del divorzio da Londra: che saranno altre exit e un’ulteriore frammentazione.