Arabia Saudita: caso Khashoggi, MbS risorsa o handicap?
Molto probabilmente, Mohammed bin Salman Al-Saud (MbS), già principe ereditario e ministro della Difesa, sarà il prossimo re dell’Arabia Saudita. Il padre Salman, attuale sovrano, l’ha persino incaricato di presiedere la commissione che riformerà i servizi segreti: un compito nuovo – e di per sé un messaggio – conferito nelle settimane convulse seguite all’uccisione del giornalista saudita Jamal Khashoggi. Molto probabilmente, la realpolitik avrà la meglio, nel lungo periodo, anche stavolta: tutti, europei compresi, continueranno a vendere armi e a fare affari con Riad, a dispetto di ciò che è già emerso di questa grave vicenda.
Ma per Riad e per i suoi investitori, il rischio-Paese si è innegabilmente alzato: il caso Khashoggi, è stato, tra l’altro, gestito malissimo dalle autorità saudite (vedi i continui cambi di versione), danneggiando ulteriormente l’immagine che MbS aveva provato a costruirsi, in un contesto di forte e inedita personalizzazione del potere. Soprattutto, esso ha indebolito l’Arabia saudita, che attraversa una complicata fase di trasformazione economico-sociale e insieme di transizione generazionale. Per MbS, il contenimento dei danni passa anche per il rapporto con la Turchia del rivale Recep Tayyip Erdogan: ciò apre la strada a possibili ricalibrazioni geopolitiche, con uno sguardo all’Amministrazione Trump sempre alleata (ma con un certo imbarazzo).
Tendenza negativa
Chi intende fare affari con l’Arabia Saudita, attirato da opportunità economiche stimolanti, dovrà confrontarsi con una realtà politico-sociale sì stabile, ma esposta a turbolenze, anche forti, di natura interna e regionale: le repentine scelte politiche del 33enne principe ereditario, insieme alle troppe zone d’ombra legate all’omicidio di Khashoggi, pesano, una dopo l’altra, sulle ambizioni geostrategiche di Riad.
Gli arresti e i licenziamenti di familiari e businessmen, l’intervento militare in Yemen, la rottura con il Qatar, la presunta detenzione del premier libanese Saad Hariri (novembre 2017), l’accresciuta repressione contro attivisti e oppositori, sono gli anelli di una catena politica di crescente incertezza. Per tale ragione, la leadership del modernizzatore MbS rischia di diventare, più che una risorsa, un handicap per lo sviluppo economico nonché per la forza geopolitica del regno, a causa delle modalità di gestione del potere, spesso controproducenti, che hanno fin qui contraddistinto il principe ereditario. E ciò avviene mentre MbS, quasi-re, sta ancora consolidando la sua presa sul regno: per esempio, nonostante la centralizzazione del potere militare (come la creazione della presidenza della sicurezza dello Stato), la Guardia nazionale, ovvero il corpo d’élite dell’Arabia Saudita, resiste alla sua ascesa.
I conti non tornano
Mai come oggi, la stabilità finanziaria, dunque sociale-politica, dell’Arabia Saudita dipende dagli investimenti esteri, poiché l’economia saudita si è globalizzata: in questo senso, il caso Khashoggi ha accelerato e amplificato una tendenza già negativa per Riad. Infatti, oltre alle difficoltà di implementazione di Vision 2030 (il piano di diversificazione economica oltre il petrolio), la fuga di capitali sauditi all’estero è stata, nel 2017, pari a 80 miliardi di dollari, mentre Riad ha attratto solo 1,4 miliardi di dollari di investimenti diretti esteri nel 2017 (nel 2016 erano stati 7,4 miliardi, dati UNCTAD). Dopo la scomparsa dell’editorialista del Washington Post, ci sono state massicce vendite di azioni del Regno e ciò ha creato grande volatilità sulla Borsa saudita.
Erdogan prova il rilancio
Teatro dell’uccisione di Khashoggi, la Turchia sta cercando di riabilitarsi internazionalmente mostrandosi ferrea nell’accertamento della verità: ma anche qui, Ankara gioca l’ennesima partita ambigua. Infatti, da un lato Erdogan colloquia con le autorità saudite (vedi il viaggio del governatore della Mecca Khaled bin Faysal), mentre Ankara lascia uscire continue indiscrezioni sulla vicenda. Non è forse casuale che la Turchia abbia rilasciato il pastore cristiano statunitense Andrew Brunson proprio nei giorni della bufera mediatica sul giornalista saudita: Erdogan prova il riavvicinamento con Washington mentre il rapporto Arabia Saudita – Stati Uniti vive giorni difficili, cercando un nuovo ruolo in Medio Oriente.
I diversivi Iran e Israele
Riad si è cacciata in un angolo geopolitico: dal palco dell’annuale Manama Dialogue, organizzato dall’International Institute for Strategic Studies, l’Arabia Saudita e i suoi alleati hanno spedito tre messaggi assai graditi agli Stati Uniti di Trump, quasi un appello a focalizzare la relazione speciale su quello che unisce Washington e Riad, dettando l’agenda politica. In Medio Oriente, si confrontano “due visioni” secondo il ministro degli esteri Saudita Adel Al-Jubeir, “quella della luce”, ovvero l’Arabia Saudita e le monarchie alleate, e “quella del buio”, l’Iran che “diffonde il settarismo nella regione”.
La Middle East Strategic Alliance (Mesa) in chiave anti-Iran includerà anche il Qatar, ha detto Al-Jubeir, nonostante la rottura nel Golfo persista. “E’ forse tempo di trattare Israele come gli altri stati della regione” ha dichiarato il ministro degli esteri dell’Oman, Yusuf bin Alawi, il giorno dopo il viaggio di Benjamin Netanyahu a Muscat. Siccome MbS non smusserà le sue politiche, occorre aspettarsi un’Arabia Saudita ancora più assertiva a livello regionale. Per unire il regno su un obiettivo esterno, sminando una transizione interna che non è più priva di insidie.