Ue/Gb: Brexit, la May vince una battaglia, ma la guerra è aperta
Man mano che si avvicina alla conclusione, il gioco della Brexit si fa duro e le tattiche si incrociano in vista del compromesso finale. Theresa May, che si era detta delusa a Salisburgo dalla rigidità dei 27, ha cercato prima di inalberare toni ‘churchilliani’ e poi ha aggiustato un po’ il tiro della sua proposta – che si chiama ora ‘Chequers 2’ – senza cambiarne granché la sostanza. La cosa ha funzionato e al congresso Tory la May è riuscita a spiazzare i sostenitori della ‘hard brexit’ con un discorso ottimistico nei toni e vago nei contenuti, che ha lasciato tutte le opzioni aperte e che le ha permesso di respingere per ora l’attacco del fronte euro-negazionista al suo governo.
La Brexit divide (e intreccia) conservatori e laburisti
Certo, in questo è stata anche aiutata dalla mancanza di idee degli avversari: né Boris Johnson – concentrato soprattutto sull’attacco (fallito) alla May – né il più ‘dialogante’ Michael Gove, né il talebano della brexit Jacob Rees-Mogg sono stati capaci di presentare uno scenario convincente della loro idea del Paese una volta uscito dall’Europa, retorica e appelli alla pancia isolazionista a parte.
La Brexit resta al centro del dibattito politico con una intensità inimmaginabile per il resto del continente e vede entrambi i partiti spaccati al loro interno. Jeremy Corbyn ha seguito le indicazioni che gli venivano dalla componente pro-europea e ha messo la sordina alla diffidenza nei confronti dell’Ue, pronunciandosi al congresso del Labour contro l’uscita dall’Europa e in favore di un secondo referendum.
C’è molta tattica prima che convincimento in questa linea e sarebbe ingenuo trarne l’idea di un vero mutamento di rotta verso l’Europa, perché l’obiettivo laburista è di cogliere l’occasione di un accordo insoddisfacente per fare cadere la May e andare a nuove elezioni, con buone probabilità di vittoria. Dopodiché si potranno semmai rivedere le cose.
E’ una linea che si incrocia paradossalmente con quella dei talebani della Brexit (e che Boris Johnson cavalca strumentalmente), sia pure per ragioni opposte; anche qui si pensa che il solo modo per cancellare le conseguenze di un accordo qualsivoglia siano elezioni che facciano fuori l’attuale governo. Il fatto che tali elezioni i tories probabilmente le perderebbero, non sembra preoccuparli più che tanto.
L’ipotesi di un secondo referendum
C’è poi la campagna – flebile per ora ma crescente – per un secondo referendum promossa da un fronte trasversale che va da Tony Blair a esponenti liberali come Nick Clegg e qualche altro. I sondaggi segnalano una graduale inversione dei rapporti di forza intorno alla Brexit, ma non in termini tali da far apparire probabile un diverso esito di una nuova consultazione.
I promotori puntano sul fatto che, una volta che le implicazioni vere della Brexit – sinora limitate a pur preoccupanti effetti di annuncio – si faranno sentire, la spinta per correggere la situazione sarà irresistibile, ma non è detto. L’idea di un referendum è vista da molti nel Paese con qualche fastidio: un espediente ‘continentale’ cui ci si è assoggettati una volta con esiti – comunque li si guardi – disastrosi; ripeterla sarebbe un errore. Aldilà delle aspirazioni degli uni e dei timori degli altri, la verità è che un secondo referendum è a sua volta ostaggio di un gioco politico centrato sulle elezioni anticipate, che potrebbe invece contribuire a evitare.
Molti punti già regolati
Quanto alla sostanza, molti punti sono stati regolati e hanno fatto dire ad entrambi i negoziatori che “il 90% è fatto”. Resta insoluto quello, cruciale, dell’Irlanda del Nord: a meno che Dublino non segua (cosa impensabile) l’esempio di Londra, con la Brexit si verrebbe a creare una frontiera fra le due Irlande, che sarebbe economicamente dannosa e politicamente insostenibile. Sarebbe la ricetta sicura per un ritorno a conflitti che l’accordo del ‘good Friday’ ha sino ad oggi consegnato alla storia e farebbe cadere il governo, che ha bisogno per sopravvivere del voto degli unionisti di Belfast del Dup.
Le soluzioni più o meno fantasiose e tecnologiche avanzate dalla May si sono rivelate impraticabili e, d’altro canto, accettare di restare nel mercato unico comporterebbe per lei l’altrettanto certa bocciatura del suo governo, questa volta ad opera del suo partito. Nemmeno il ripiego di restare nell’unione doganale ma non nel mercato unico, sembra funzionare. Sul versante comunitario, la richiesta britannica di restare nel mercato unico solo per i beni ma non per i servizi (e le persone) è inaccettabile, perché ne mina il principio fondativo dell’indissolubilità delle sue componenti; e, in una fase in cui il rischio di disgregazione non solo del mercato unico, ma della trama comunitaria nel suo complesso è forte, l’Ue non può permettersi flessibilità autolesionistiche.
L’handicap della confusione
La storia comunitaria è piena di situazioni in cui – rinviando un po’ al futuro qua, alzando un po’ di polvere là – si è riusciti ad andare avanti fidando che la dinamica del sistema avrebbe prevalso, come in effetti è speso avvenuto. Ciò presuppone l’esistenza di un clima politico positivo, che qui è offuscato dalla confusione. Raramente si è visto un negoziato portato avanti in maniera così raffazzonata, senza un principio guida chiaro e con oscillazioni dettate da contingenze immediate come quello di Londra.
Se ci si può forse consolare pensando che ricorda certe vicende di casa nostra, non si può non restare perplessi dalla decostruzione di un sistema e di una cultura politica che si era abituati a prendere ad esempio. La May ha cercato a lungo di dividere il campo degli avversari puntando ora sulla Merkel, ora sugli scandinavi, ora su Visegrad, uscendo regolarmente sconfitta. I 27, d’altro canto, di fronte a una simile strategia sono stati indotti a rafforzare una unanimità che pochi immaginavano possibile e che, ad onta di molti pessimismi, tiene ancora. E allora?
Le differenti percezioni dell’Unione europea
Per vincere, la politica deve potere governare le percezioni e anche qui il gioco è complicato. La Gran Bretagna continua a sottovalutare come per gli altri l’Ue sia in primo luogo un fatto politico; percepito diversamente e in maniere a volte fortemente dialettiche, ma senza mai disconoscerne la centralità: l’Europa come fattore identitario e elemento di stabilità – di cui il mercato non è il fine, ma uno strumento – è alla base della visione dei 27.
Londra ha sempre considerato l’Ue come un esercizio soprattutto commerciale e su questo tasto ha continuato a battere anche nel negoziato mostrando di non comprendere il peso decisivo della dimensione politica nella posizione negoziale dei 27. I quali stentano dal canto loro a comprendere le ragioni dell’eccezionalismo britannico, non rendendosi conto delle fondamentali differenze nella cultura politica di un Paese che – fra l’altro – è l’unico a non avere vissuto (anzi, a continuare a disconoscere) la palingenesi delle Rivoluzione francese, ha guardato al suo interesse in una proiezione mondiale e ha visto nell’Europa e nei suoi problemi non un destino comune, ma il luogo e l’occasione di vantaggi politici. Si è a lungo pensato – lo credeva anche Altiero Spinelli – che dall’incontro fra queste culture sarebbe uscito un rafforzamento del Dna democratico dell’Europa; invece è andata diversamente.
La seduzione dell’anglosfera
In un volume che merita di essere letto, ‘Shadows of Empire’ (Polity Press, 2018), Michael Kenny e Nick Pearce spiegano la persistente seduzione dell’anglosfera negli inglesi (negli inglesi prima che gli altri britannici, e anche questo è importante); la convinzione che il Commonwealth possa rappresentare un ancoraggio in nome della tradizione comune anche sul piano economico (nonostante indiani, australiani, neozelandesi e canadesi si siano affrettati a smentirlo); l’idea che l’anglosfera fa sì che Londra soprattutto non possa non guardare – ed essere guardata da – Washington; la persistenza della mentalità “little englander” che ha permesso all’Inghilterra (soprattutto ad essa) di affrontare e vincere in solitudine sfide come quella della Germania nazista, e la fa ora guardare con disappunto ma non con costernazione alla possibile dissoluzione del Regno Unito; la convinzione di poter nuovamente volgere le vele al vento per trovare oltre il mare prosperità e influenza.
Il sentimento antieuropeo non ha nulla del populismo degli altri movimenti analoghi in Europa: si alimenta nel ‘rust belt’ industriale del Nord della rabbia di quella che è stata una élite operaia forte della sua identità di classe e potente, nei confronti di un ‘cosmopolitismo industriale’ che ritiene responsabile del suo degrado, incapace di fare i conti con una immigrazione che pure le consente in qualche modo di sopravvivere. Una rabbia che si alimenta anche altrove nell’ostilità verso le grandi città – Londra, Birmingham, Manchester – irrimediabilmente perdute alla seduzione di un internazionalismo che nega l’essenza della britishness. Solo scorie di un passato finito, come siamo stati abituati a pensare? Kenny e Pearce – ma non solo loro – ci dicono: attenzione! Non è così. O almeno, non è solo così.
Riflessioni sulle conseguenze di un fallimento
Un fallimento creerebbe ripercussioni forti nell’Ue – il cui impatto effettivo è ancora difficile valutare – e sarebbe un suicidio per la Gran Bretagna. Che potrebbe davvero vedere la Scozia optare per l’indipendenza, mentre in Irlanda la spinta per una riunificazione conflittuale potrebbe farsi forte. Un compromesso sulla falsariga dell’accordo con il Canada, piuttosto che con la Norvegia, è stato spesso evocato; così come è possibile affidare a una ‘dichiarazione politica’ l’impegno ad approfondire con tutto il tempo che sarà necessario le questioni aperte, estendendo di fatto il periodo transitorio ben oltre i due anni previsti.
Il prossimo Consiglio europeo dovrebbe poterci fare capire qualcosa di qui a qualche giorno: Londra pensa che sarà dedicato soprattutto alla Brexit, ma gli altri sembrano ritenere che si parlerà per la gran parte di immigrazione.
Contro una soluzione ragionevole, gioca la determinazione dei brexiteers di affondare ai Comuni qualsiasi accordo, per avere mano libera nel definire in piena libertà il futuro del Paese, nonché quella – opposta – dei laburisti di bocciare l’accordo al fine di forzare le elezioni e tornare al governo, riprendendo da lì le fila del rapporto con l’Ue. A favore, vi è la volontà dell’Ue di non trascinare troppo per le lunghe una situazione che rischia di farsi pericolosa per la sua stessa stabilità. Dovrebbe anche giocare l’atteggiamento del governo di un Paese che – anche se sembra a tratti di essersene dimenticato – ha fatto sempre del pragmatismo la cifra del suo successo e della sua influenza. Attenti però: giudicare con le proprie lenti deformanti le percezioni degli altri, può essere pericoloso.