Europa: unione di Stati ma non (ancora) di intenti
Cos’è per me l’Europa? È il motivo e il mezzo dell’Erasmus a Strasburgo. È la notte del 23 giugno 2016, quando il Regno Unito oscillava tra Leave e Remain. È la tesina di maturità “Charlie Hebdo e la libertà di espressione”, l’Interrail in Ungheria, Austria e Repubblica Ceca, mentre Orbán innalzava muri.
È il viaggio nel Cie deserto di Lampedusa, all’indomani della morte di 368 migranti. Affogati nel Mediterraneo per un rimpallo di competenze tra Malta e Italia.
È Aquarius e la catena di naufragi, in quello stesso mare di rimpalli burocatico-amministrativi, in un contesto italiano ed europeo nettamente diverso.
L’Europa è nata per rendere la guerra “non solo impensabile, ma materialmente impossibile”.
Lo scopo fondante e fondativo è realizzato: guerre nell’arena europea non ce ne sono più state. Morti nell’arena europea purtroppo sì: 34.361 è il parziale bilancio degli identificati.
Cosa è andato storto, in un percorso complesso ma sempre virtuoso e mai precipitoso?
Difficile rispondere per una ventenne, nata in un’Europa già costruita.
Objet politique non identifié
L’Europa non è né una organizzazione internazionale classica né uno Stato. Jacques Delors la definiva “objet politique non identifié”: unica, senza precedenti, ma debole. Non essendo uno Stato, non ha la competenza delle sue competenze: quel che può fare è gentil concessione degli Stati membri (principio di attribuzione).
La cessione o la condivisione delle competenze presuppone, inoltre, il principio di leale collaborazione tra Stati ed Unione, stabilito dai Trattati, e la comunione di intenti tra Stati membri e Unione.
Ed è qui che qualcosa si è rotto.
Partiamo dall’ingresso: lo Stato che vuole diventare membro deve essere genericamente “europeo”, rispettare i “tre criteri di Copenaghen” e l’articolo 2 del Trattato sull’Unione (rispetto di libertà, democrazia, uguaglianza; presenza di uno Stato di diritto, diritti umani).
L’Unione non ha obblighi né limiti di tempo: accoglierà il Paese quando e se opportuno; divenuto membro, lo Stato ne rispetta basi, contenuti e prospettive.
Come garantire che l’unione di intenti persista?
Lo strumento principe è la procedura dell’articolo 7 del Tue: consente di constatare il rischio o la violazione dell’articolo 2. Comporta un iter complesso, quindi interviene su situazioni già compromesse.
Nel 2014 la Commissione ha introdotto il Nuovo quadro giuridico per la salvaguardia dello stato di diritto: un dialogo rafforzato con lo Stato per fronteggiare “minacce sistemiche”, che possano ripercuotersi sugli altri membri e sull’Unione stessa.
La Polonia ha ricevuto quattro raccomandazioni prima che la Commissione presentasse al Consiglio la proposta motivata per avviare l’articolo 7: tredici leggi polacche minano lo stato di diritto, la legittima e indipendente revisione costituzionale, la separazione dei poteri.
Intanto, in Ungheria, Viktor Orbán ha fatto approvare dal Parlamento, di cui detiene i 2/3, un testo di modifica della Costituzione che mette a repentaglio la separazione e il reciproco controllo dei poteri: per giudicare gli atti amministrativi statali si istituiscono tribunali speciali, con giudici nominati dal governo.
Il filo rosso che collega la Polonia all’Ungheria, passando per Repubblica Ceca, Austria e Slovacchia, è la presunta difesa dell’identità nazionale, associata alla religione cristiana e ipoteticamente minacciata dagli immigrati.
Il testo ungherese recita: “collocare cittadini stranieri sul territorio del Paese è vietato, salva l’autorizzazione del Parlamento”.
Così l’Ungheria si oppone a George Soros, all’accoglienza, all’Europa. Fa fronte comune con i Paesi del blocco di Viségrad contro quella riforma del 2016 del regolamento di Dublino, approvata dal Parlamento europeo ma in stallo in Consiglio e bloccata dopo la notte del Consiglio europeo del 28 giugno scorso.
La riforma avrebbe aiutato i Paesi frontalieri, tra cui Ungheria, Italia e Grecia, eliminando il criterio del Paese di primo ingresso e ripartendo i migranti in piccole quote obbligatorie, in funzione di Pil e occupazione.
11 settembre 2018, risoluzione Sargentini
Sessantanove “capi di accusa” contro l’Ungheria, 448 voti favorevoli su 693 eurodeputati che per la prima volta votano sull’attivazione del meccanismo previsto dall’articolo 7 del Tue, relatrice la verde olandese Judith Sargentini.
La procedura è avviata, Orbán è imperturbabile: la proposta motivata del Parlamento deve ottenere l’approvazione dei 4/5 degli Stati membri; basteranno i Paesi Viségrad a salvarlo. Se qualcuno mancasse all’appello, si constaterebbe il rischio di violazione dell’articolo 2, ma non l’esistenza della violazione per la quale serve l’unanimità.
L’Europa a due velocità nei fatti
Da un lato, la lentezza dei processi delle Istituzioni europee e l’ incapacità di risposte e proposte; dall’altro, la velocità del ritorno al nazionalismo di alcuni Paesi europei, con effetti-domino. Giungendo al paradosso: per riaffermare l’identità nazionale, Paesi caratterizzati da nazional-populismo promuovono un’alleanza inter-nazionale con altri Stati europei volenterosi di supremazia nazionale.
Che cosa si è rotto?
La visione comune: gli obiettivi dei singoli Stati europei non corrispondono più a quelli dell’Europa unita.
C’è stata una vera integrazione?
La risposta lampante è la Brexit: ha asfaltato la strada dell’uscita dall’Unione.
Illuminante la vicenda dell’Aquarius: Catalogna, Paesi Baschi, Corsica, che rivendicano identità e autonomia, hanno fatto a gara per accoglierla.
Esemplificativa l’attribuzione delle competenze: poche quelle esclusive dell’Unione, creando problemi come una politica monetaria dell’Eurozona non accompagnata da una politica economico-fiscale.
Chiarificatrice la quantità di Protocolli, che consentono ad alcuni Stati di rimanere fuori da Schengen o di rifiutare la moneta unica.
Si è sottovalutata la questione “percezione e mala informazione”?
I Paesi europei ma non europeisti sono tutti beneficiari netti: ricevono dall’Europa più di quanto versano; i Paesi che rifiutano i migranti sono quelli che ne ospitano di meno.
Nessuno dei 28 Stati membri dell’Ue raggiunge il “livello di sostituzione”, un tasso di fertilità di 2,1 figli per donna. Di migranti regolari abbiamo bisogno: sono giovani e propensi a lavori sgraditi agli italiani.
Cosa è mancato?
Una classe dirigente europea che portasse avanti una politica europea propositiva, formando un’opinione pubblica europea. Classe dirigente e discussioni sono ancorate ai confini nazionali.
Che fare?
- Consolidare la pratica degli Spitzenkanidaten
- Rilanciare le liste transnazionali: non redistribuendo i 73 seggi vacanti del Regno Unito in maniera transnazionale si è persa una grande occasione.
- Creare un quotidiano, anche online, che veicoli la corretta informazione europea e comunichi l’attività dell’Unione.
- Potenziare l’insegnamento di educazione civica europea, formando docenti e studenti già dalle superiori.
“Non ci sarà pace in Europa se gli Stati verranno ricostituiti sulla base della sovranità nazionale […] gli Stati europei sono troppo piccoli per garantire ai loro popoli la necessaria prosperità e lo sviluppo sociale. Le nazioni europee dovranno riunirsi in una federazione”.
Jean Monnet lo aveva capito nel 1943.