Corea-Vaticano: Papa Francesco guarda alla riunificazione
Ormai più di vent’anni fa, a Manila, papa Giovanni Paolo II disse che il terzo millennio per la Chiesa cattolica sarebbe stato il tempo dell’Asia. E dopo l’accordo concluso con la Cina per la nomina dei vescovi e, di conseguenza, il ricongiungimento della comunità cattolica cinese all’ecclesia romana, si prospetta un ulteriore passo in avanti per la Santa Sede all’interno del continente asiatico. E il 18 ottobre scorso, facendo tappa anche in Vaticano nel corso di un suo tour per l’Europa, il presidente sudcoreano Moon Jae-in ha consegnato nelle mani di papa Francesco una lettera con cui il leader nordcoreano Kim Jong-un invita il pontefice a visitare Pyongyang.
Per papa Bergoglio si tratterebbe di un ritorno nella penisola coreana. Il successore di Benedetto XVI, nell’agosto 2014, in occasione della VI Giornata della gioventù asiatica, si recò già in Corea del Sud. Ma mai un pontefice ha oltrepassato il 38° parallelo, che dal 1953 fa da bisettrice tra Seul e Pyongyang, ovvero tra due residui bellici della Guerra fredda, che il tempo e il corso della storia non hanno liberato dal paradigma geopolitico della metà del secolo scorso. Ma papa Francesco, tessitore della narrativa che subordina il centro alle periferie e che ha dimostrato di avere una pulsione verso quella che, forse, è la più grande sfida dell’evangelizzazione – il continente asiatico – potrebbe essere il primo.
Soltanto un’ipotesi, che però apre a scenari inimmaginabili per l’azione petrina fino a qualche anno fa. Pensando, soprattutto, a qual è il ruolo – e il peso – della comunità cattolica sudcoreana e alla riconfigurazione internazionale della Santa Sede che, contrariamente a quanto la vulgata tradizionale vorrebbe, è più vicina a Pechino di quanto non lo sia a Washington. Due attori che, nella penisola coreana, si guardano in cagnesco da anni. Non dimenticando, però, la vera natura del regime di Kim Jong-un. Il dialogo ormai infittitosi con gli Stati Uniti e le strette di mano per la stampa con la controparte sudcoreana sembrano più un’operazione cosmetica, che una volontà di cambiamento.
I cattolici credono in una sola Corea
La Chiesa cattolica in Corea del Sud è in costante ascesa. Non solo in semplici termini numerici, ma anche politici. Nella cosiddetta “rivoluzione delle candele” – rivoluzione colorata in salsa asiatica che ha portato all’impeachment e alla destituzione della presidente Park Geun-hye –, la comunità cattolica ha partecipato in maniera attiva. Un ritorno sulla scena che ha rinvigorito i seguaci di Santa Romana Chiesa, che non si sono certo fermati al perimetro nazionale.
Nel dicembre 2015, una delegazione di prelati e parroci guidata dal presidente della Conferenza episcopale coreana (Cec) Hyginus Kim Hee-joong si è recata in Corea del Nord. Una visita svoltasi poco dopo quella di papa Francesco al Sud, e che è servita al clero sudcoreano per ribadire la propria convinzione sulla possibilità, in futuro, di arrivare alla riconciliazione nazionale e, di conseguenza, alla riunificazione della penisola coreana.
Una posizione che il pontefice, qualche mese prima, aveva assunto come versione ufficiale e comprovata dalla Santa Sede stessa. Durante il suo viaggio, papa Francesco ha infatti spiegato come di Coree ne esista soltanto una, ma divisa. “Tutti i coreani sono fratelli e sorelle”, ha spiegato, “membri di un’unica famiglia e un unico popolo”. Un’unità di tipo culturale, che nell’ottica papale precede – temporalmente e per importanza – quella politica. In particolare, papa Francesco faceva riferimento agli elementi che continuano, ancora oggi, ad accomunare i coreani al di qua e al di là del 38° parallelo: storia millenaria, tradizioni, lingua e scrittura. Un fuoco culturale che, per i cattolici sudcoreani e il pontefice, continua ad ardere sotto la cenere accumulatasi negli ultimi settant’anni.
Un gambero tra due balene
La penisola coreana, come scrisse Tiziano Terzani, è un gambero tra due balene. Nel corso dei secoli, le balene sono spesso cambiate: oggi sono la Cina e gli Stati Uniti. Che hanno tutto l’interesse nel tutelare lo status quo: Washington può così mantenere le truppe e le navi in Corea del Sud, per tener d’occhio la Cina; al contrario, Pechino può frapporre la Corea del Nord tra i soldati statunitensi e i propri confini.
Nel quadrante dell’Estremo Oriente così descritto, la Santa Sede – seguendo la geopolitica dello spirito di Francesco – potrebbe ritrovarsi ancor più vicina alla Cina e più lontana dagli Stati Uniti. Un incontro con Kim Jong-un, dopo l’accordo con Pechino, rappresenterebbe un altro traguardo di notevole importanza, soprattutto nell’ottica del “tempo lungo” che il pontefice adotta come lente per guardare al mondo. Certo è che ciò aumenterebbe l’influenza cinese o, comunque, ne rafforzerebbe l’immagine. A discapito di Washington, con cui la Santa Sede da qualche anno non è in rapporti idilliaci.
A minarne le relazioni, è la visione geopolitica: mentre Francesco fa dell’universalismo il marchio di fabbrica del proprio papato, gli Stati Uniti di Donald Trump hanno riscoperto se stessi, e portano avanti un progetto più americano che globale.
A Pyongyang tutto cambia, perché nulla cambi
L’ultima stagione del regime veterocomunista di Kim Jong-un è stata quella del dialogo. A giugno l’incontro con il presidente Donald Trump a Singapore; poi, il mese scorso, il secondo in pochi mesi con il suo omologo sudcoreano nella zona smilitarizzata di Panmunjon. Ora, con l’invito che proprio Moon Jae-in ha recapitato a papa Francesco da parte di Kim, si prospetta un altro faccia a faccia, a cui lo stesso pontefice avrebbe aperto. Che, se dovesse realmente tenersi, ruberà la scena internazionale, riportando la penisola all’attenzione del grande pubblico.
Come nei due precedenti, però, anche quello con il pontefice rischia di essere un buco nell’acqua. Si badi bene, non per colpa della (tutt’altro) che scarsità diplomatica della Santa Sede, quanto per la natura gattopardesca del potentato nordcoreano. Pyongyang, nonostante la stagione – apparentemente – aperturista del dittatore Kim Jong-un, non farà mai veramente rinuncia all’asse su cui si basa tutto il suo potere e che, al tempo stesso, è ostacolo insormontabile per la riunificazione: la bomba atomica. Per la Corea del Nord le testate nucleari sono sinonimo d’indipendenza, di capacità di sopravvivere. E per questo non vi rinuncerà.
Per Francesco, al contrario, è imprescindibile che Pyongyang proceda al suo disarmo. Quella che il pontefice stesso ha definito come “terza guerra mondiale a pezzi” – guarda caso, espressione usata sull’aereo di ritorno dalla Corea del Sud – si basa anche sulla circolazione incontrollata degli armamenti nucleari e chimici. Il Papa, per la penisola e il mondo, immagina una pace strutturale, basata su elementi immateriali, e non sull’equilibrio instabile della deterrenza nucleare. Che per Kim Jong-un, al contrario, è il vero e proprio scettro del comando.
La visita papale offrirebbe dunque alla comunità cattolica coreana, sia del Sud che del Nord – dov’è presente, nonostante sia uno Stato ufficialmente ateo, e dov’è discriminata se non proprio perseguitata – un’occasione unica. Difficile che questa possa portare all’effettiva corrosione del regime di Pyongyang ma, proprio perché “il tempo è superiore allo spazio” – come scritto dal Papa nella Evangelii Gaudium – saranno solo gli anni a venire a potercelo dire.
Foto di copertina © Giuseppe Ciccia/Pacific Press via ZUMA Wire