Taiwan: dopo El Salvador America latina sempre più cinese
Sono rimasti ormai soltanto 16 Paesi a riconoscere ufficialmente Taiwan (ovvero la Repubblica di Cina, Rdc). Dopo la rottura diplomatica dello scorso maggio con la Repubblica Dominicana, si è aggiunto anche El Salvador alla lista delle nazioni che riconoscono il governo di Pechino come unico ed esclusivo rappresentante del popolo cinese. Qualche giorno fa, in un comunicato congiunto, il governo salvadoregno, per mezzo del ministro degli Esteri Carlos Castaneda, ha riconosciuto “que existe una sola China en el mundo”, aderendo così al principio della One-China policy, requisito imprescindibile per la Cina popolare per l’avvio di relazioni diplomatiche con qualsiasi Stato.
E, ancora una volta, come nel caso dominicano, è stata la prontezza cinese nel garantire sostegno economico e investimenti nel Paese centroamericano a far pendere l’ago della bilancia. Secondo il ministro degli Esteri di Taiwan, Joseph Wu, il governo di El Salvador avrebbe avanzato una richiesta di fondi per la realizzazione del sistema portuale: una “somma astronomica”, che Taipei non è stata in grado di offrire. Una strategia prettamente mercantile, che Tsai Ing-wen, presidente di Taiwan, non ha esitato a bollare come “comportamento internazionale ormai fuori controllo”. Ma che è stata senz’altro efficace.
I cambi di campo nel continente
Il cambio di rotta di El Salvador non è una semplice operazione cosmetica, bensì un’altra tappa del lungo cammino cinese in quell’area di mondo che, un tempo, era il cosiddetto American backyard, il “giardino statunitense”. Attualmente, la metà dei Paesi che riconoscono ufficialmente Taiwan si concentra proprio nella regione caraibica e dell’America centrale. Leggasi, due bastioni statunitensi.
Da almeno un decennio, però, l’assertività di Pechino ha fortemente mitigato il primato di Washington. Per primo fu il Costa Rica, che nel 2007 lasciò Taiwan per la Cina popolare. Poi, dieci anni dopo, Panama, il cui canale rende il Paese, da decenni, perno dell’America centrale. Quindi, a seguire, nell’estate 2018 Repubblica Dominicana ed El Salvador. E l’importanza di questo repentino cambio di casacca è testimoniata dalla reazione, furente, della diplomazia a stelle e strisce. Tanto da far esporre in modo eclatante la Casa Bianca, che ha parlato, quasi con toni da guerra fredda, di “interferenze cinesi nella politica interna di un Paese dell’emisfero occidentale”, che porteranno a una “riconsiderazione delle relazioni con El Salvador”.
Anche il senatore della Florida Marco Rubio, ex avversario di Donald Trump nelle primarie repubblicane, ha duramente criticato la mossa del governo salvadoregno. Rubio ha definito la scelta di riconoscere Pechino e avviare le relazioni diplomatiche con la repubblica popolare come “un terribile errore”, ipotizzando inoltre che il cambio fosse dettato anche da un non ben definito aiuto cinese al partito del presidente Salvador Sánchez Cerén in vista delle elezioni del febbraio 2019.
Una strategia internazionale per un problema nazionale
Non va dimenticato, comunque, che Pechino gioca contemporaneamente su due tavoli. Non solo esercita pressione sul principale rivale globale, ovvero gli Stati Uniti, ma anche delegittima Taiwan sul palcoscenico internazionale. Obiettivo ultimo della Cina popolare è quello di porre fine all’ormai decennale ambiguità di Taipei e riportare l’isola sotto il proprio controllo.
Durante l’ultimo Congresso del Partito comunista, il presidente Xi Jinping ha dichiarato che la Cina ha a disposizione “sufficienti risorse per contrastare qualsiasi tentativo d’indipendenza da parte di Taiwan”. L’isola, nell’ottica del leader cinese, è semplicemente una provincia dell’Impero del Centro, staccatasi in modo improvvido dal cordone ombelicale che la legava al continente.
Negli ultimi anni, Pechino ha affinato la propria strategia per accelerare il processo di riunificazione di Taiwan alla Cina popolare. E per dare una soluzione a un problema “interno”, ha scelto la strada internazionale. O meglio: dello svuotamento della dimensione internazionale di Taiwan. Una strategia senz’altro efficace. Per rendersene conto, basta osservare la parabola discendente di Taipei che tra il 1971 – anno in cui lo scranno di membro permanente nel Consiglio di sicurezza venne definitivamente assegnato a Pechino – al 1979 ha perso i contatti diplomatici con ben 46 Paesi. Oggi i Paesi Onu che intrattengono relazioni con Taiwan sono 16, più la Santa Sede.
Armi affilate, in questo senso, sono state la politica della One-China policy e il cosiddetto Beijing Consensus. Da un lato, quest’ultimo – riedizione in salsa cinese del più noto Washington Consensus – ha permesso a Pechino di presentare ai Paesi in via di sviluppo un modello politico-economico assai più appetibile (e snello) di quello “occidentale”. Gli aiuti e gli investimenti cinesi, ad esempio, non sono subordinati al rispetto di standard umanitari, come può essere nel caso dell’Unione europea.
Dall’altro, per stringere qualunque tipo di rapporto diplomatico, occorre che la controparte riconosca alla Cina popolare, e solo ad essa, la capacità di rappresentare i cinesi. Ciò significa che non si può avere ambasciate al di qua e al di là dello Stretto. O l’una, o l’altra. È chiaro, dunque, come per ottenere gli ingenti investimenti e capitali cinesi, i Paesi, soprattutto quelli in via di sviluppo, preferiscano di gran lunga spostarsi verso Pechino.
Quale futuro per Taiwan?
L’elezione alla presidenza della Repubblica democratica di Cina di Tsai Ing-wen, esponente di punta del Partito progressista democratico (Minjindang), che detiene anche la maggioranza in Parlamento, ha deteriorato ulteriormente i rapporti tra Pechino e Taipei. Il partito di governo sostiene infatti fermamente l’indipendenza di Taiwan, formalmente enunciata anche nel proprio statuto.
Agli ideali, però, si contrappone la realtà. I pochi partner rimasti potrebbero presto diventare pochissimi. Nicaragua, Santa Lucia e, soprattutto, Paraguay sembrano destinati, presto o tardi, ad essere attratti nel campo gravitazionale di Pechino. Lasciando a Taiwan nient’altro che le briciole.