Populismo: intrecci di speranze e provocazioni da Terra Madre
Una speranza per salvare il mondo può venire dal populismo, anzi dai populismi. Quella che sembra una provocazione è venuta da una kermesse dall’apparenza gaudente e dalla sostanza estremamente seria, cioè Salone del Gusto – Terra Madre, evento che al Lingotto di Torino in cinque giorni ha riunito 900 espositori da 100 Paesi, 7mila delegati da 150 nazioni, 1000 comunità del cibo, una rete sempre più grande che gettata sul mappamondo traccia, o vorrebbe tracciare, le coordinate di un nuovo sistema di sviluppo sostenibile.
Chavi di lettura alternative
L’attuale, infatti, è inesorabilmente destinato al collasso perché consumiamo più risorse di quello che il pianeta ha a disposizione; e i governi non riescono a governare queste dinamiche predatrici, anzi. Barry Lynn, giornalista-scrittore e ricercatore alla New America Foundation a Washington DC, e John Ikerd, professore emerito di Agricultural & Applied Economics dell’Università del Missouri, hanno proposto chiavi di lettura che ribaltano quelle in voga su populismo e capitalismo, su economia di mercato e benessere.
“Oggi – secondo Ikerd – non abbiamo né il capitalismo né la democrazia, abbiamo il corporativismo e la plutocrazia e il nostro Governo non è riuscito a far fronte a una delle sue grandi responsabilità: mantenere la competitività tra un maggior numero di aziende. Bisogna tornare ai principi base della democrazia e dell’economia di mercato”. I grandi monopoli, nell’economia come nell’informazione – vedi Google, Amazon, Facebook –costituiscono, per Ikerd e Lynn, la grande minaccia di questo secolo.
Segnali di speranza e rischi per la democrazia
Ma i segnali di speranza ci sono. Non sono Trump né le forze di destra – hanno detto i due studiosi – ma i popoli che stanno reagendo. “Lottano contro i monopoli – dice Lynn – ma non sanno come e lo fanno con le persone sbagliate”. Non occorrevano Ikerd e Lynn per svelare che populismo non è tout court sinonimo di fascismo e che, letteralmente, ha una radice ‘buona’ che fa perno sulla sovranità del popolo, peraltro concetto anch’esso assai sfaccettato e problematico. Il People’s Party in America – hanno ricordato – nasce a fine Ottocento contro le élite, le banche sanguisughe e se Trump si è spacciato come populista ha barato perché “si tratta di un demagogo che fa parte dei privilegiati”. E “anche in Europa non ci sono populisti, ma demagoghi”.
“Negli Stati Uniti stiamo affrontando la più grande minaccia alla democrazia dalla Guerra civile a causa della concentrazione del potere economico, dalla concentrazione del controllo – ha affermato Lynn –. Clinton, Blair, Obama, ci hanno parlato di un futuro di pace, libero, utopico. In realtà già 40 anni fa, in silenzio, Reagan e Thatcher, hanno cambiato le leggi antimonopolio, hanno cambiato le regole di base, hanno promesso efficienza per i consumatori secondo una filosofia del benessere che ci vede come consumatori non come cittadini. Obama è diventato presidente dicendo di voler combattere i monopoli, ma in 8 anni non lo ha fatto”.
La risposta, un populismo che sia interconnessione
La soluzione? Ripristinare un mercato davvero competitivo. Ikerd si è detto convinto che “riusciremo a cambiare la società, l’economia, perché così non si può andare avanti. Oggi bisogna impegnarsi al di là dei risultati. Occorre ritornare ad affermare i diritti umani fondamentali, quelli della Dichiarazione d’Indipendenza che riconosce a tutti il diritto alla libertà, alla felicità. Questi diritti devono essere garantiti dai governi. Negli Usa c’è un movimento A Move to Emend, che vuole garantire alle persone la partecipazione al processo politico, mentre il sistema alimentare locale si sta muovendo nella direzione della sostenibilità, verso l’affermazione della nostra interconnessione con la terra. Questo – ha ribadito – crea populismo, ma in senso positivo perché significa interconnessione con le persone”.
Tutto questo Lynn lo ha chiamato “risveglio”. E’ il risveglio di piccole comunità locali, piccole aziende famigliari che tessono una trama che dal basso dovrebbe costringere i governi a sostenere metodi di produzione e distribuzione sostenibili, sani, eticamente corretti, isolando l’intera filiera rispetto a quella del mercato imperante. Il condizionale è d’obbligo anche perché – e lo ha ammesso lo stesso Lynn – il risveglio ha due facce: quella della chiusura e quella dell’apertura, del coinvolgimento di sempre più ampi strati di popolazione mondiale.
Economia sostenibile e cambiamenti climatici
E se dalle proposte di Ikerd e Lynn per un’economia equa, capace di dare cibo sano a tutti garantendo la buona salute dell’attore principale di ogni economia, ovvero la natura, si passa alla riflessione dell’antropologo Amitav Ghosh e dell’ambientalista Sunita Narain sui cambiamenti climatici, anch’essi prodotti dello sfruttamento irrazionale delle risorse, sorgono alcuni dubbi sull’efficacia di ogni azione di cambiamento che non entra nell’agenda politica dei governi nazionali e internazionali. Il dubbio è che la vastità e la complessità dei processi in atto finiscano per surclassare, e vanificare, gli sforzi dei singoli, quant’anche uniti in rete
Il dubbio è inevitabile a sentire un contadino pakistano raccontare a Ikerd e a Lynn dei risultati positivi raggiunti nel suo villaggio dove si coltiva secondo criteri di sostenibilità e c’è un mercato senza denaro, ma di scambio di prodotti. Un contadino felice in un Paese infelice? Il rischio è il chiudersi nel ‘piccolo e bello’, nel giardino di Candide. Ma è proprio questo che non è più possibile. Perché – non ha dubbi lo stesso Lynn – “non c’è più spazio per una ritirata. Non c’è più un rifugio sicuro”.
Intanto Slow Food ha avviato gli Slow Village che, entro il 2025, dovrebbero raggiungere quota 1000. I cinesi hanno afferrato al volo l’opportunità. Il professor Wen Tie-Jun, fondatore del Movimento di Ricostruzione rurale, prenderà le redini del progetto portandolo avanti assieme ai programmi di de-urbanizzazione.