Pakistan: il nuovo corso del governo di Imran Khan
Le elezioni dello scorso luglio sono state segnate da un pesante clima di terrore politico e religioso ma hanno tuttavia portato un risultato popolare orientato al cambiamento per la Repubblica islamica del Pakistan. La vittoria alle urne è stata del Pakistan Tehrik-e-Insaf (Pti), partito d’estrazione popolare e dal messaggio populista che ha ottenuto il 31,8% dei consensi. Il messaggio forte di rinnovamento ed il volersi porre come contraltare della tradizionale politica, molto spesso compiacente alla corruzione e alla cessione di certi ambiti di sovranità (come rispetto agli Stati Uniti in tema di sicurezza, per buona parte della guerra in Afghanistan), sembrano aver fatto presa nel corpo elettorale del Pti.
Il nodo dell’alleanza
Se è vero che la vittoria del Pti poteva essere prevista con buona approssimazione, non tanto può essere detto di quanto avvenuto per la formazione del governo. Il leader della forza di maggioranza, con alle spalle una carriera da giocatore professionista di cricket ed un largo consenso popolare, Imran Khan, ha dovuto affidarsi ad una alleanza governativa per diventare primo ministro secondo la procedura dettata dalla Costituzione.
La scelta è ricaduta sul Muttahida Qaumi Movement Pakistan (Mqm-P), forza che promette larghe concessioni alla provincia del Sindh e alle città di Karachi e Hyderabad. In tale area venne fondato il Mqm, da cui discende il discusso Mqm-P, e qui risiede il serbatoio elettorale del partito. La maggioranza in Parlamento è quindi stata ottenuta da Khan grazie a delle concessioni che riguardano una sola provincia del Pakistan. Al di là della forzatura politica, l’accordo (definito un informale Memorandum of Understanding) rappresenta un precedente di cessione parziale sul fronte federale che il governo dovrà sostenere in futuro senza esserne vittima.
I legami con l’esercito e il ricorso al Fmi
Da varie fonti di analisi si sottolinea però che il Mqm-P non è stato l’unico attore cui il Pti ed il premier Imram Khan hanno riconosciuto concessioni o fatto promesse. Dal 2013 ad oggi, infatti, il partito di maggioranza relativa del Pakistan ha ottenuto in diverse occasioni il supporto (diretto o indiretto) dei militari. Così è stato in occasione dell’arresto (fomentato da Imran Khan) di Nawaz Sharif. L’ex premier, principale rivale politico di Khan, fu fermato per crimini legati alla corruzione, insieme a numerosi membri del suo partito e con un’ingiustificata azione tesa a “prevenire” disordini e proteste.
Sulla scia di questo e altri episodi, Imran Khan ha sempre platealmente sostenuto le forze armate ed in special modo la loro ala più conservatrice. In un paese come il Pakistan legarsi a doppio filo con i militari potrebbe voler dire cedere di fatto il potere esecutivo ai suoi organi apicali, come il Capo di stato maggiore dell’esercito. In passato, questo è avvenuto nel 1958, nel 1977 e nel 1999 (in quest’ultimo caso a spese già di un governo guidato da Nawaz Sharif). Affrancare il livello politico dall’influenza militare e cooperare fattivamente ma ciascuno nei propri ambiti rappresenta quindi una delle priorità del governo, insieme alla stabilizzazione economica.
La Repubblica islamica è infatti interessata da una contingenza economica molto negativa, che potrebbe spingere il governo a intraprendere una procedura di bailout di fronte al Fondo monetario internazionale (Fmi), chiedendo quindi un’erogazione di liquidità straordinaria per far fronte al debito crescente. Tale procedura non incontra gli auspici degli analisti internazionali e potrebbe costringere Islamabad ad uno scotto molto alto.
Il governo dovrebbe fare il massimo per evitare un tale estremo ricorso nella congiuntura attuale, sia per dare una garanzia di stabilità appena eletto sia per smentire le numerose voci di corridoio della comunità internazionale che sospettano l’intenzione di Islamabad di ripianare gli onerosi debiti contratti con la Cina (storico alleato del Pakistan) traendo vantaggio dal supporto del Fmi.
L’equilibrismo con Washington
Rimane tuttavia l’interrogativo sull’impostazione che il nuovo esecutivo pakistano vorrà dare alla propria politica estera e a quella economica. La visita del segretario di Stato americano Mike Pompeo, il 5 settembre, ha visto da parte di Imran Khan un atteggiamento surreale per non dire indecifrabile. Il premier non ha inizialmente ricevuto il capo della diplomazia Usa, accolto dal suo omologo Shah Mahmood Qureshi.
Come in una recita pianificata, Qureshi ha accusato gli Stati Uniti di aver abbandonato il Pakistan a seguito della decisione dell’amministrazione di Donald Trump di ridurre significativamente gli aiuti militari al Paese. Khan, presentatosi a incontro già iniziato e inserendosi nel discorso, ha invece virato verso toni accomodanti nei confronti degli Stati Uniti, pur se decisi, riaffermando la propria intenzione di promuovere l’interesse nazionale pakistano. Pompeo ha diplomaticamente sostenuto la causa pakistana di fronte al Fmi, pur riaffermando la necessità che Islamabad si faccia carico della soppressione della minaccia estremista in Afghanistan.
Nel teatro pakistano, insomma, gli Stati Uniti cercano un ritiro che garantisca un’importante assunzione di responsabilità da parte di Islamabad, mentre la Cina continua a coltivare un’alleanza profonda pur assumendo, talvolta, atteggiamenti da battitore libero. Sembra proprio che nel Paese debba consumarsi il passaggio definitivo fra l’egemonia statunitense e quella cinese nell’area, addossando al neoeletto governo di Imran Khan rilevanti responsabilità che quindi non solo toccano il suo Paese ma l’intera comunità internazionale.
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