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Governo M5S/Lega e riforme costituzionali

Italexit: basta una maggioranza semplice per lasciare l’Ue?

20 Set 2018 - Gian Luigi Tosato - Gian Luigi Tosato

Si ritorna a parlare di riforme costituzionali nell’Italia del governo M5S/Lega . Nella sua audizione parlamentare del luglio scorso, il ministro per i Rapporti con il Parlamento e la democrazia diretta Riccardo Fraccaro ha esposto un suo programma di riforme, mirato a varare singole modifiche del testo costituzionale, non revisioni complessive come si proponevano iniziative precedenti.

Le riforme delineate riguardano principalmente una drastica riduzione dei membri di Camera e Senato e un rafforzamento degli istituti di democrazia diretta: in particolare, si intende aggiungere un cosiddetto referendum propositivo accanto a quello abrogativo già esistente. Il punto della riduzione dei parlamentari è stato rilanciato in questi giorni anche dal vicepremier e capo politico del Movimento Cinque Stelle Luigi Di Maio.

Non è questa la sede per un esame specifico delle proposte del ministro Fraccaro. Il metodo che egli intende seguire – solo modifiche puntuali della Carta – deve ritenersi per molti aspetti da approvare. E anche varie fra le riforme prospettate meritano adesione o comunque vanno prese  in seria considerazione. È da prevedere che non mancheranno in tema  opportuni approfondimenti giuridici  da parte dei colleghi costituzionalisti.

Programma Fraccaro e Unione europea
Qui è bene invece soffermarsi sul breve cenno che, nell’audizione parlamentare, Fraccaro ha dedicato alle problematiche dei rapporti con l’Unione europea. Per il ministro, sarebbe utile riaffermare che i vincoli per il legislatore italiano derivanti dalle normative europee valgono solo se l’Unione si mantiene entro le competenze che le sono attribuite e rispetta i principi e le libertà fondamentali della nostra Costituzione.

A tal fine – osserva il ministro – si potrebbe intervenire in sede di “manutenzione” dell’articolo 117 comma 1 della Costituzione, che fa riferimento all’espressione ormai superata di “ordinamento comunitario”.

Nulla quaestio, ovviamente, sulla questione terminologica. Anche se si continua a parlare di diritto comunitario, l’espressione corretta è diritto (ordinamento) dell’Unione europea. E neppure si può dubitare dei principi richiamati dal ministro. È da considerarsi ormai acquisito che il primato del diritto europeo è soggetto al duplice limite che l’Unione non agisca ultra vires  e che essa rispetti l’identità costituzionale degli Stati membri.

Come nota lo stesso Fraccaro, sono principi  ben saldi in sede giurisprudenziale. Li hanno più volte affermati la nostra Corte costituzionale e le corti supreme di altri Paesi europei. Il loro inserimento in Costituzione non sembra dunque così urgente e necessario. Tanto più che le difficoltà non riguardano i principi, ma la necessaria collaborazione tra giudici europei e nazionali quando si passa alla loro concreta attuazione.

La questione del recesso dall’Ue
L’audizione del ministro non ha toccato altre problematiche  europee. Viene da chiedersi allora se non vi siano ulteriori questioni da tenere presente in vista di un programma di riforme costituzionali.

Non mi riferisco all’esigenza, molto dibattuta in passato, di inserire in Costituzione un’apposita “clausola sull’Europa”, del tipo di quella che si trova nella Costituzione tedesca. Penso che l’articolo 11 della Carta, così come interpretato dalla nostra Consulta, fornisca una base giuridica sufficiente a legittimare la (e fissare i limiti della) partecipazione dell’Italia al processo di integrazione europea. È piuttosto su una questione specifica, e in qualche modo di segno opposto, che vorrei riflettere: quella costituita da un eventuale recesso dalla Ue.

(© Lorentz-Allard Robin/Aftonbladet/IBL via ZUMA Wire)

Come è ben noto, la possibilità di lasciare l’Unione è ora espressamente contemplata dal Trattato di Lisbona (articolo 50 Tue). Prima, in assenza di una previsione apposita, si discuteva se il recesso dall’Unione fosse comunque ammissibile in base alle norme di diritto internazionale dei trattati. Tuttavia alla questione non veniva attribuito particolare rilievo, perché il fenomeno appariva di scarsa attualità. Ma a partire dalla Brexit la situazione è cambiata, e anche un’eventuale Italexit è entrata nel novero degli accadimenti da non escludere.

È il caso quindi di domandarsi come una decisione di recesso dovrebbe essere presa nel nostro Paese. L’articolo 50 Tue si limita a precisare – e non potrebbe fare altrimenti – che ciascuno Stato membro procede “conformemente alle proprie norme costituzionali”, una formula analoga a quella utilizzata per la ratifica in sede nazionale di modifiche dei Trattati fondativi (articolo 48 Tue) .

Poiché da noi una previsione costituzionale apposita non esiste, bisogna evidentemente ragionare in base ai principi che si ricavano da altre norme della Carta. In prima linea viene dunque in considerazione l’articolo 80 della Costituzione, che per la ratifica dei trattati di maggiore rilievo esige la preventiva approvazione parlamentare. Questa stessa regola è ritenuta normalmente applicabile anche alle vicende post ratifica, quali successive modifiche di un trattato o la sua estinzione.

L’articolo 80 non prescrive una particolare procedura per le decisioni ivi previste. Valgono quindi le regole ordinarie dell’articolo 64 della Costituzione, secondo cui Camera e Senato deliberano validamente (nel rispetto di un certo quorum) a maggioranza semplice dei presenti.

L’esigenza di garanzie costituzionali adeguate
Siamo giunti così al punto sul quale si intende attirare l’attenzione. Allo stato attuale, una decisione dell’Italia di ritirarsi dall’Unione ricadrebbe sotto il dettato dell’articolo 80 della Costituzione; il che vuol dire che essa potrebbe essere adottata dai due rami del Parlamento a semplice maggioranza. Di qui l’interrogativo che sorge immediatamente: una procedura del genere può ritenersi adeguata?

La risposta per lo scrivente è senz’altro negativa. Il rilievo politico, economico e sociale dell’appartenenza all’Unione, le implicazioni gravissime che conseguirebbero a un eventuale distacco, il suo impatto sul funzionamento delle nostre istituzioni, i dubbi di compatibilità  di una decisione del genere con l’articolo 11 della Costituzione (che non solo “consente”, ma anche “favorisce e promuove” la partecipazione dell’Italia all’integrazione europea) sono aspetti che non richiedono particolari sottolineature. Non sembra quindi azzardato sostenere che, per qualche verso, la decisione di innescare l’Italexit si presti ad essere assimilata ad una vera e propria revisione della Costituzione.

Se il ragionamento che precede è corretto, la conclusione che se ne trae non appare eludibile. Ed è che il recesso dall’Unione richiederebbe una procedura aggravata rispetto a quella ordinaria, per quel che riguarda sia le maggioranze parlamentari necessarie sia il ricorso al voto popolare tramite referendum. Si potrebbe ipotizzare, in definitiva, un iter deliberativo non lontano da quello previsto dall’articolo 138 della Costituzione per le modifiche della Costituzione.

Torniamo al programma di riforme costituzionali dal quale si è partiti. Il modesto suggerimento che qui si avanza è di tenere presente l’esigenza sopra formulata. Si badi bene: per chi scrive, l’abbandono dell’Unione da parte del nostro Paese non è certo un evento auspicabile; e c’è da sperare che non si giunga mai ad avviare un processo decisionale sull’Italexit. Ma, ad ogni buon conto, sembra opportuno che si apprestino in Costituzione garanzie procedurali adeguate, in modo che un’eventuale decisione di recesso sia ben meditata e ampiamente condivisa nel Paese, al di là di delibere parlamentari prese a maggioranza semplice.

Foto di copertina © Kay Nietfeld/DPA via ZUMA Press