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Dopo il terzo vertice fra Moon e Kim

Corea: i costi asiatici della pacificazione nella penisola

23 Set 2018 - Pierfrancesco Moscuzza - Pierfrancesco Moscuzza

Tra il 18 ed il 20 settembre il presidente sudcoreano Moon Jae-in e il suo omologo nordcoreano Kim Jong-un si sono riuniti a Pyongyang per riprendere i negoziati sul processo di pacificazione della penisola coreana. L’incontro rappresenta un nuovo passo in avanti nel processo di pace tra le due Coree, riaprendo trattative che erano giunte ad un punto morto dopo l’apice del meeting di Singapore tenutosi il 12 giugno tra Kim Jong-un e Donald Trump.

Il summit fra i leader nordcoreano e statunitense si era concluso con una dichiarazione congiunta che era stata criticata duramente per la vaghezza dei contenuti e per la mancanza di una roadmap chiara per la sua realizzazione, principalmente dovuto alla fondamentale differenza di vedute tra i due. In particolare, l’accordo di Singapore ruotava intorno a quattro punti così descritti: l’ inizio di nuove relazioni diplomatiche tra Corea del Nord e Stati Uniti; la volontà di costruire una pace duratura nella penisola coreana; la riaffermazione della dichiarazione di Panmunjom sulla denuclearizzazione della penisola coreana; il recupero dei resti dei prigionieri e dei soldati morti in combattimento nella Guerra di Corea (1950-1953).

Fra rinnovate tensioni e prime volte
La conferma delle fondatezza di tali letture critiche era arrivata con il riaccendersi delle tensioni ad inizio luglio, quando dopo una visita del segretario di Stato statunitense Mike Pompeo a Pyongyang, la Corea del Nord aveva accusato gli Stati Uniti di avanzare “una richiesta unilaterale e criminale di denuclearizzazione”, definendo questo comportamento come “profondamente deplorevole”. La risposta di Washington non si era fatta attendere, con la cancellazione da parte di Trump del seguente viaggio di Pompeo a Pyongyang, dovuto “alla mancanza di progressi nel processo di denuclearizzazione”.

Ad agosto un rapporto dell’Onu aveva poi confermato le accuse dell’intelligence statunitense, dimostrando che la Corea del Nord aveva tentato di vendere armi ed attrezzature militari nello Yemen, in Libia e in Sudan. Inoltre, il rapporto accusava il regime di Pyongyang di aver continuato la cooperazione militare con la Siria e di “non aver interrotto il suo programma missilistico e nucleare” in violazione delle sanzioni delle Nazioni Unite.

L’incontro tenutosi nei giorni scorsi a Pyongyang rappresenta invece un passo in avanti nei negoziati, perché stabilisce degli obiettivi più chiari e perché marca due fatti epocali. Anzitutto la visita di Moon Jae-in nella capitale del Nord, durante la quale il presidente sudcoreano ha rivolto un discorso direttamente al popolo nordcoreano, un fatto che mancava dalla fine della Guerra di Corea. L’occasione è stata offerta dai Giochi di Massa organizzati nel Rungrado May Day Stadium a Pyongyang per celebrare il settantesimo anniversario della fondazione della Repubblica popolare democratica di Corea.

Nel suo discorso durato sette minuti, Moon ha detto che i due Paesi dovrebbero “diventare uno”, ritornando alla situazione originaria antecedente la Guerra degli Anni Cinquanta. Il secondo evento significativo è arrivato con la promessa da parte di Kim di visitare Seul, anche questo un fatto senza precedenti nella storia delle due Coree.

I punti dell’intesa
Durante la tre giorni nella capitale del Nord, i due leader hanno concordato degli obiettivi concreti da raggiungere. Il più importante è la chiusura definitiva del centro nucleare nordcoreano di Yongbyon (il principale del Paese, dove tra le altre attività avvengono anche l’arricchimento dell’uranio impoverito e il riprocessamento del plutonio e dell’uranio, quasi esclusivamente per scopi militari), in cambio di non ben definite “corrispondenti misure da parte degli Stati Uniti”.

Gli altri punti di rilievo riguardano un progetto per collegare le strade e le ferrovie dei due Paesi entro l’anno, e il rinnovo della cooperazione commerciale che si era interrotta nel 2016 con la cessazione delle operazioni del parco industriale di Kaesong in rappresaglia contro le provocazioni nucleari e missilistiche nordcoreane. Inoltre, Kim e Moon vogliono trovare dei modi per creare una zona economica speciale sulla costa occidentale e una zona turistica speciale sulla costa orientale. Il successo di questi progetti rimane comunque vincolato all’abolizione delle sanzioni Onu tuttora vigenti, le quali proibiscono il trasferimento di denaro in Corea del Nord e le operazioni di joint-venture con qualsiasi tipo di entità nordcoreana, sia essa di carattere pubblico o privata.

Le implicazioni per Cina, Giappone e Russia
Nonostante vi siano degli innegabili benefici derivanti dal riavvicinamento diplomatico tra le due Coree e dall’intenzione statunitense di riaprire il dialogo con Pyongyang, esistono anche delle implicazioni politiche a livello internazionale che trascendono le dinamiche regionali della penisola coreana.

La prima riguarda l’alleanza tra la Corea del Sud, gli Stati Uniti ed il Giappone. Infatti, se Moon riuscisse nell’intento di migliorare la cooperazione politica ed economica con Pyongyang senza però ottenere progressi tangibili sulla questione nucleare, si creerebbe una spaccatura con Washington, così inasprendo una crisi iniziata con la guerra commerciale lanciata da Trump nei confronti delle imprese sudcoreane.

Questa situazione potrebbe essere sfruttata dalla Cina che sosterrebbe l’impegno di Seul verso Pyongyang, alimentando le tensioni tra Washington e l’alleato sudcoreano, possibilmente con la promessa di aprire il proprio mercato interno alle industrie sudcoreane e di concludere un trattato di cooperazione militare. Allo stesso tempo, un tale evoluzione alimenterebbe l’insicurezza del Giappone a causa della minaccia diretta proveniente dal programma nucleare nordcoreano e della progressiva espansione egemonica della Cina nella regione, con la quale esiste una disputa sul controllo delle isole Senkaku (Diaoyu) nel Mar cinese orientale. Tutto ciò aumenterebbe la distanza tra Tokyo e Seul, e in più potrebbe anche essere la causa di un nuovo equilibrio geopolitico nella regione, in quanto determinerebbe una drastica riduzione della presenza militare statunitense sulla terraferma, dove Washington mantiene una posizione strategica importante grazie all’ alleato sudcoreano.

La seconda implicazione riguarda Taiwan, che si vedrebbe progressivamente isolata dal supporto politico-militare degli Stati Uniti come conseguenza delle promesse di alleggerimento strategico nella regione fatte da Trump in cambio della denuclearizzazione nordcoreana. Se Trump dovesse dare seguito alle proprie parole, riducendo lo schieramento militare nella penisola coreana, la Cina avrebbe l’occasione perfetta per estendere il proprio soft power verso Taipei, incrementando il livello degli scambi commerciali ed aprendo il proprio mercato finanziario e bancario agli operatori taiwanesi. In questa maniera, Pechino attirerebbe Taipei nella sua zona di influenza in maniera indolore, consolidando in maniera definitiva la sua egemonia nella regione.

Da ultimo, c’è anche l’incognita rappresentata dalla disputa territoriale sulle isole Kuril tra Russia e Giappone. Nonostante la Russia apparentemente non mostri molto interesse per la regione dell’Asia orientale, va ricordato che condivide parte del suo confine territoriale con la Cina e la Corea del Nord, per cui un allontanamento della presenza militare statunitense dalla zona potrebbe solo favorire i propri interessi e quelli degli alleati cinesi e nordcoreani.

Foto di copertina © Pool/Pyongyang Press Corps via ZUMA Wire