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Ideologie confuse

Ucraina: volontari italiani nel Donbass a Donetsk e Lugansk

30 Ago 2018 - Marco Petrelli - Marco Petrelli

Il mese di agosto era iniziato con una notizia che riportava all’attenzione dei media sul lungo, ma quasi dimenticato, conflitto che contrappone Kiev ai separatisti filo-russi del bacino del Donec, fondatori delle Repubbliche secessioniste di Donetsk e di Lugansk. La Polizia di Stato, infatti, ha smantellato una rete di reclutamento che, nel Nord Italia, assoldava mercenari da inviare nel Donbass per combattere l’Ucraina in una guerra a bassa intensità che sembra sopravvivere e protrarsi proprio grazie all’affluenza di soldati di ventura, milizie private e volontari stranieri fra i quali molti italiani.

Una tradizione di combattenti in conto terzi
Non è una novità sapere di italiani che lottano in guerre che non sono loro. Anzi, forse è la caratteristica unica di un popolo che sin dall’antichità partecipa a campagne militari che non coinvolgono, direttamente, gli interessi della nazione a cui appartiene. Prima di dedicarsi alla causa dell’Unità, il ‘padre’ del Risorgimento Giuseppe Garibaldi combatté a lungo in SudAmerica, ricevendo attestati di stima e di riconoscimento dal governo uruguaiano.

Dopo la caduta del Regno di Sicilia, inoltre, soldati del disciolto esercito borbonico attraversano l’Atlantico per raggiungere gli Stati Uniti dove, nel dicembre, la Carolina del Sud si separerà dall’Unione provocando di fatto l’escalation che avrebbe portato alla Guerra civile americana.

Ventimila in tutto gli italiani che fra il 1860 e il 1865 servono sotto le bandiere delle due fazioni; i borbonici finiscono nel sud degli Stati Uniti al fianco del generale Lee, ingrossando i ranghi dei reggimenti confederati e delle milizie locali: Mississipi, Alabama, Louisiana.

Dalla Marna all’Ucraina passando per Asia e Africa
Nel XX Secolo dalla Penisola affluiscono volontari che si battono sulla Marna (1914) inquadrati nella Legione garibaldina; altri combatteranno in Etiopia con il negus contro i loro stessi compatrioti, così come in Spagna nel ’36-’39. La Legione straniera francese e il Tercio spagnolo contano sin dalla loro fondazione elevate quote di italiani che si battono in Europa durante la Seconda Guerra Mondiale e nelle colonie d’oltremare come l’Indocina.

Derino Zecchini, friulano ed ex partigiano delle Brigate Garibaldi, abbandona la Legione per unirsi al Viet Minh combattendo anche a Dien Bien Phu. Negli Anni Sessanta, epoca d’oro delle milizie militari private, si registra la presenza di italiani in armi nella repubblica separatista del Katanga. E, ancora, durante l’invasione sovietica dell’Afghanistan due italiani combattono con i mujhaeeddin: uno è Raffaele Favero, batterista del complesso di musica leggera de ‘I Profeti’, morto a Urgun nel 1983 sotto i cingoli di un carro russo.

La fine dell’Urss non frena la partecipazioni di volontari, soprattutto occidentali, a conflitti locali e a bassa intensità. E se l’Isis può contare su giovani europei radicalizzatisi nei loro stessi Paesi, i belligeranti del Donbass ricevono il sostegno di uomini che appoggiano la causa dell’Ucraina o della Russia.

Chi sono gli italiani nel Donbass
Uno dei volti più noti della militanza italiana in Donbass è senza alcun dubbio Andrea Palmeri, 35enne toscano, intervistato dagli inviati de Le Iene a Lugansk qualche anno fa. Giunto nel 2014 nella Repubblica separatista nell’Est dell’Ucraina, Palmeri ha combattuto per sette mesi al fianco dei secessionisti, restando anche ferito. La sua vicenda ha acceso il dibattito: è un ultrà con alle spalle procedimenti penali, adesione alla destra radicale, innamorato di Vladimir Putin e convinto, come da sue affermazioni, che se “non si vince qui scoppia la Terza Guerra Mondiale”.

In realtà le storie dei combattenti sono molto diverse. Da I fascisti italiani fanno da mercenari a Putin, servizio pubblicato da l’Espresso nell’ottobre scorso, si apprende che la paga media di un combattente è di circa 400 euro, una piccola somma della quale si lamentano anche gli intercettati della rete di reclutamento sciolta a inizio agosto. Certamente, il titolo del reportage non lascia scampo ad equivoci quanto agli orientamenti personali: in genere, chi raggiunge il Donbass lo fa perché affascinato dalla leadership putiniana, dal nazionalismo russo e dall’idea di battersi per un paese che si oppone all’Unione europea e alla Nato.

Militari di professione
Fra coloro i quali vanno a combattere nell’Est ucraino c’è chi ha alle spalle un addestramento militare. Competenze, quelle da soldato, indispensabili non solo quando si preme il grilletto, ma soprattutto per facilitare l’adattamento della persona a un contesto difficile, che mette alla prova il fisico e la mente. Caso emblematico quello di ‘Spartaco’, giovane bresciano che due anni fa rilascia un’intervista a un quotidiano italiano: giubbetto anti-proiettile, elmetto e AK-47 a tracolla, il combattente ricorda il periodo trascorso nell’Esercito italiano e le missioni internazionali, poi la partenza da Verona per arrivare a destinazione tramite un contatto.

L’arruolamento in eserciti e milizie estere è proibito dalla legge italiana, né è così facile raggiungere un territorio in guerra da clandestini, cioè senza fornire spiegazioni alle autorità di frontiera. Pertanto un ‘traghettatore’ è indispensabile per varcare i confini. Ed è la figura del ‘Caronte’ la chiave di lettura che i media occidentali usano per etichettare i combattenti: contatto vuol dire rete, rete significa organizzazione politica. E siccome in Europa i filo-russi sono individuati da giornali ed opinione pubblica nell’ambiente della destra radicale, ecco che i ‘foreign fighters’ del Donbass sono etichettati come fascisti.

Politica e realtà
Ciò che si evince dalle dichiarazioni e dalle testimonianze è la scarsa capacità di motivare la scelta di unirsi ai filo-russi. La scusa dell’ideologia, poi, attecchisce poco: a rigor di logica, infatti, un militante della destra radicale dovrebbe scegliere il Reggimento Azov (ormai parte dell’Esercito ucraino), che ha come simbolo un nodo di rune ed è animato da un forte spirito anti-russo e anti-comunista.

Al contrario, Vladimir Putin ha alle spalle una lunga carriera militare prima nella Voenno-vozdušnye sily (Aeronautica sovietica), poi nel Kgb, per il quale svolgeva servizio anche a Berlino nei giorni della caduta del Muro. Quanto ai separatisti del Donbass, la Repubblica del Donetsk ha come simbolo una stella rossa e fra i partiti politici che sostengono la causa secessionista c’è il Partito comunista russo.

Alcuni analisti tentano di motivare la decisione di unirsi alla guerriglia filo-russa con le tesi di Aleksander Dugin, principale esponente del nazional-bolscevismo e sostenitore della creazione di uno stato euro-asiatico che si contrapponga agli Stati Uniti. Teorie sicuramente affascinanti, ma probabilmente non troppo approfondite dai volontari europei: come nel caso dei ‘foreign fighters’ dell’Isis, infatti, la maggior parte delle informazioni che l’spirante guerrigliero riceve e che sono alla base del suo indottrinamento arriva da internet e dalla televisione. Le informazioni vengono recepite, elaborate e assorbite secondo la sensibilità e della preparazione culturale di ciascuno.

Nel 2016, studiando i canali di propaganda del Daesh, gli analisti di StratcomCoe si accorsero che SnapChat era uno dei più utilizzati: non cultura, quindi, né formazione spirituale, ma immagini d’effetto che potessero fare breccia nell’animo e nella sensibilità del giovane pubblico cui erano destinate. Va da sé che la carne da cannone non ha necessità di essere educata e formata.

Combattere per Putin, dunque, ma con poca percezione della realtà nella quale ci si muove: il conflitto ucraino impegna Mosca e Washington in un braccio di ferro per la supremazia sul Mar Nero, da secoli sponda più meridionale (e strategica) della Russia. Il 20 luglio, il Pentagono ha annunciato lo stanziamento di 200 milioni di dollari all’Ucraina, che avrebbero come fine quello di potenziare le comunicazioni, la mobilità militare, la visione notturna e le cure mediche militari.

Dal canto suo Mosca, pur riconoscendo le ragioni dei secessionisti, nega ogni coinvolgimento del proprio esercito nell’area, seppure sia cosa difficile da considerare vera: l’annessione della Repubblica autonoma di Crimea e le tensioni internazionali che ne sono seguite imporrebbero al Cremlino una certa attenzione per quell’angolo di Russia importante più dal punto di vista strategico che non dal mero punto di vista storico-culturale.

Una guerra, quella del Donbass, che difficilmente vedrà fine nel breve periodo, perché la rinuncia di una delle due parti apparirebbe agli occhi del mondo come sinonimo di debolezza politica e militare. Più probabile invece la chiusura delle frontiere ai volontari che intendono battersi per le Repubbliche separatiste: in un’ottica di legittimare la propria presenza in Crimea, la Russia ha bisogno di contare più su media, giornalisti, analisti, politici occidentali pronti a perorare la sua causa piuttosto che di poche decine di miliziani stranieri.