Russia-Ucraina: linea di tensione sul fronte dei diritti
Russia e Ucraina sono separate da una debole linea di confine sul fronte della salvaguardia dei diritti umani e delle libertà civili e politiche. A distanza di quattro anni, le conseguenze della tensione separatista in Crimea e la violenta escalation militare nell’Est ucraino, hanno definitivamente incrinato le relazioni diplomatiche tra Kiev e Mosca.
Tra le pieghe del conflitto russo-ucraino, la negazione di tutele fondamentali nella detenzione dei prigionieri politici e di guerra subisce l’influsso di fasi distensive, presupposto alla fattiva attuazione degli accordi di Minsk I (2014) e II (2015), alternando frizioni bilaterali nell’osservanza delle stesse condizioni siglate.
Lo scorso 18 giugno, nel vertice di Berlino tra le diplomazie del “quartetto di Normandia” (Russia, Ucraina, Francia, Germania), si è discusso della rimozione delle armi pesanti e di interventi di sminamento nelle aree interessate dal conflitto. Operazioni che, ha ricordato il ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas, implicano il rispetto del cessate il fuoco e una cabina di regia coordinata a livello sovranazionale.
Possono le Nazioni Unite unire l’Ucraina?, si domanda un rapporto dell’Hudson Istitute (2018) che delinea lo scenario geopolitico di una possibile missione di peacekeeping Onu nel Donbass. Prospettato per il 2019, l’intervento dei caschi blu incontrerebbe un duplice ostacolo: in sede di Consiglio di Sicurezza, la Russia eserciterà pressioni per bloccare l’iniziativa, prolungando l’impasse; mentre le autoproclamate Repubbliche popolari di Donetsk (Dpr) e Luhansk (Lpr), firmatarie insieme a Russia e Ucraina del Protocollo di Minsk (2014), hanno già annunciato di volere contrastare ogni intervento esterno manu militari.
“Aree di tensione” e attivismo di piazza: la crisi ucraina del 2014
Nel febbraio 2014, la sospensione dell’accordo di partnership politica ed economica con l’Unione europea (Deep and Comprehensive Free Trade Area, Dcfta) e l’accettazione di un prestito concesso dalla Russia (15 miliardi in più tranches) conducono migliaia di cittadini ucraini pro-europei in Majdan Nezaležnosti, la piazza centrale della capitale Kiev, per chiedere le dimissioni dell’allora presidente Viktor Janukovyč.
In 48 ore, tra il 21 e il 22 febbraio, le proteste popolari che stavano esacerbando da settimane la tensione sociale e politica nel Paese suscitano una crescente pressione interna nel Parlamento. Fatto che costringe dapprima Janukovyč a negoziare un difficile accordo con le opposizioni e che, il giorno successivo, ne determina la destituzione, a seguito di una mozione votata in larga maggioranza dalla Verkhovna Rada.
Nelle stesse ore, l’assemblea approva un disegno di legge per il ripristino della Costituzione del 2004, disponendo un riequilibrio tra i poteri presidenziali e parlamentari, oltre a un provvedimento di amnistia per la scarcerazione “incondizionata” dei manifestanti detenuti e la riforma del codice penale, che pone fine alla detenzione di Yulia Tymoshenko, leader della cosiddetta ‘rivoluzione arancione’ (2004) e primo ministro per due mandati.
Non tarda ad arrivare la risposta del presidente russo Vladimir Putin, sostenitore del destituito capo di Stato ucraino, che annuncia: “Dobbiamo iniziare a lavorare per restituire la Crimea alla Russia”, accogliendo, con queste parole, la delibera del Consiglio federale russo sullo schieramento di truppe nella penisola e il rafforzamento dei contingenti militari nella base navale di Sebastopoli, per “fornire assistenza al fine di garantire pace e ordine pubblico“. Giusta reazione, sostiene lo stesso Janukovyč, “agli eventi testimoniati dal nostro Paese e dal mondo intero come un esempio di colpo di Stato“.
Ferma la replica delle forze politiche nazionaliste che, come sostiene l’attuale ministro dell’Interno ucraino Arsen Avakhov, imputavano a Janukovyč la diretta responsabilità nelle “uccisioni di massa di civili“, seguite alla violenta repressione delle manifestazioni civili, denunciata anche da Amnesty International e Reporter Sans Frontières – peraltro, il suo successore alla presidenza, Petro Poroshenko, ha riconosciuto, per decreto, i 130 civili e i 18 poliziotti uccisi “eroi dell’Ucraina”.
Il 16 marzo viene indetto un referendum per l’autodeterminazione della Crimea, che raccoglie oltre il 97% dei voti in favore dell’indipendenza, sancendo, di fatto, la nascita della Repubblica autonoma di Crimea, successivamente annessa alla Federazione russa (atti unilaterali non riconosciuti dalla comunità internazionale, che costano alla Russia l’esclusione dal G8). Conflittualità che, nei primi giorni di aprile, si estende nella regione Est del Donbass.
Tutt’ora in corso, “la guerra dimenticata alle frontiera d’Europa”, come ricorda The Guardian, ha portato alla distruzione di infrastrutture e città, causando la morte di oltre 10.000 persone tra soldati e civili ucraini e russi.
Il caso transnazionale di Oleg Sentsov
“Non conosco quali potrebbero essere delle convinzioni degne di valore se non sei pronto a soffrire o morire per loro“: queste le parole pronunciate dal regista Oleg Sentsov in un’udienza, tenutasi nel 2015, di fronte alla corte militare di Rostov-on-Don, in Russia. Nel maggio scorso, la campagna #SaveOlegSentsov, lanciata sui social network da molte personalità del mondo dello spettacolo russo e internazionale, ha richiamato l’attenzione di politici e media occidentali.
Sul quotidiano Le Monde (12 agosto 2018), la ministra della cultura francese Françoise Nyssen ha sottoscritto, insieme, tra gli altri, ai registi Jean-Luc Godard e Ken Loach, un appello per l’immediata scarcerazione del cineasta ucraino, autore del film Gamer (2011). Attivista in campo e sul “grande schermo”, Sentsov ha preso parte, nelle fila dei giovani pro-europei di Automaidan, ad una serie di manifestazioni meglio note come Euromaidan (iniziate nel novembre 2013).
Impegnato come volontario civile a supporto delle truppe ucraine durante i 24 giorni della crisi in Crimea, il regista, accusato di “complottare attentati terroristici” contro la Russia, è stato condannato a venti anni di carcere da scontare nella colonia penale siberiana di Labytnangi: in una lettera autografa pubblicata da The Guardian, denuncia di aver subito delle percosse da parte di agenti russi per estorcergli una confessione.
Le “pessime condizioni di salute“, evidenziate dall’avvocato difensore Dmitry Dinze a Radio Liberty, sono la diretta conseguenza del prolungato sciopero della fame, iniziato il 14 maggio, per invocare la fine delle ingiustizie perpetrate dall’amministrazione russa nei confronti dei dissidenti ucraini – oltre a lui, sono 64 i prigionieri detenuti -. Il ‘caso Sentsov’ è stato oggetto di una risoluzione votata a giugno dal Parlamento europeo (2018/2754 RSP), che “esprime profonda preoccupazione per la tendenza ad arresti, attacchi, intimidazioni screditanti verso giornalisti indipendenti e difensori dei diritti umani che lavorano in Russia“.