Italia: l’istruzione per restituire fiducia e comprensione
Nel 1980 l’economista Arthur Laffer disegnò su un tovagliolo la rappresentazione grafica della sua teoria di riduzione delle imposte per convincerne l’allora candidato repubblicano alla presidenza statunitense Ronald Reagan: Laffer ipotizza che esista un livello dell’aliquota fiscale che massimizza il gettito. Questo livello “X” varia di Paese in Paese seguendo le condizioni e inclinazioni sociali, in particolare la fiducia della popolazione nelle istituzioni e nella capacità di ridistribuzione. Un esempio pratico: la popolazione del Nord Europa risulta avere un maggiore indice di fiducia nelle capacità di ridistribuzione delle istituzioni, perciò con aliquote più basse, ma pagate da tutti, si ha una maggiore efficienza e offerta di servizi rispetto ai Paesi del Sud Europa, fra cui l’ Italia, dove la fiducia è minore e gli stessi risultati sono raggiunti con tasse più alte e una maggiore propensione all’evasione.
Il caso Italia, tra sfiducia e insoddisfazione
Il dato italiano pare confermare la teoria di Laffer, essendo che ad un’alta evasione fiscale si accompagna un grado di sfiducia nelle istituzioni che fa riflettere sulla percezione che i cittadini hanno della politica in Italia: dati dell’Istat mostrano come la fiducia nelle istituzioni nazionali e quella nei partiti politici, misurate su una scala da 0 a 10, siano pari mediamente a 3,5. Bassa, ma un minimo superiore, anche la fiducia nei governi locali (3,7), in contrapposizione con le Forze dell’Ordine e i Vigili del Fuoco, che ottengono un 7 in pagella. Nessuna fiducia (voto pari a 0) è attribuita dal 36,9% delle persone sopra i 14 anni ai partiti politici, dal 22,5% al Parlamento e dal 16,9% al sistema giudiziario.
Analizzando la recentissima storia politico-economica dell’ Italia, questo apice dell’indice di sfiducia non sorprende: l’instabilità politica che da sempre contraddistingue il nostro Paese è andata inasprendosi dal 2011 e ha visto come fedeli compagni di viaggio la crisi economica e i numerosi fallimenti della classe dirigente nel tentativo di risollevare il Paese dalle condizioni nelle quali versava. L’inaspettato peggioramento delle condizioni di vita e del reddito medio ha contribuito ad abbassare il tasso di fiducia e ad alzare invece il senso di distacco e di insoddisfazione della popolazione rispetto a meccanismi di funzionamento dell’economia e della politica.
Senza tralasciare l’importanza della semplicità e dell’immediatezza che contraddistingue il nostro tempo, si comprende forse meglio quali sentimenti sociali abbiano portato il 4 marzo scorso al trionfo di forze politiche che si definiscono “antisistema” e “vicine al popolo” e alla sconfitta della classe dirigente precedente. Un vento di cambiamento e divisione ha travolto la sinistra, che ormai invecchiata e tramortita non riesce a reinterpretare i bisogni e le paure della società e a reinventare una narrativa costruttiva e convincente.
Lascia spazio allo scarso senso di appartenenza e alle paure materiali degli italiani e di conseguenza al montare dell’aggressività, della chiusura e del disinteresse: il calo della partecipazione politica che l’Istat registra dal 2013 al 2017 è di più di 2 punti percentuali e le persone che parlano di politica almeno una volta a settimana sono calate dal 48% al 36% della popolazione, mentre i temi della perenne campagna elettorale si fanno pratici e diretti, a cominciare dalla risposta brutale al flusso migratorio fino alla liberalizzazione della detenzione di armi.
La curva di Laffer dall’economia alla politica e al sociale
Come la curva di Laffer in economia quindi, la fiducia nelle istituzioni pare rapportarsi alla conoscenza e comprensione dei meccanismi di funzionamento dei fenomeni politici e sociali: non ci sarebbe da stupirsi se i prossimi dati Istat relativi al governo giallo-verde registrassero un aumento della fiducia e soddisfazione nell’azione politica italiana.
Ma c’è un altro dato sociale interessante che andrebbe considerato e viene spesso tralasciato, ovvero il record italiano di analfabetismo funzionale. Un articolo de L’Espresso aiuta a tracciare un identikit di un analfabeta funzionale: è capace di leggere e scrivere, ma ha difficoltà a comprendere testi semplici ed è privo di molte competenze utili nella vita quotidiana. I nuovi analfabeti provengono dalle più disparate condizioni sociali e di istruzione, solo il 10% è disoccupato, fanno lavori manuali e routinari, poco più della metà sono uomini e uno su tre è over 55.
Secondo Simona Mineo, ricercatrice dell’Osservatorio Isfol, l’assenza di un livello base di competenze rende difficili ulteriori attività di apprendimento e il tessuto italiano potrebbe addirittura aiutare la diffusione dell’analfabetismo funzionale: l’abbandono scolastico precoce, i giovani che non lavorano o vivono condizioni di lavoro nero e precario, la mancanza di formazione sul lavoro e la disaffezione alla cultura e all’istruzione caratterizzano tutta la popolazione e sono intrecciati in un circolo vizioso con l’incapacità di rielaborazione e comprensione delle dinamiche e dei significati di ciò che ci circonda.
Analfabetismo funzionale e istruzione scolastica
Alla luce delle considerazioni appena fatte, appare nell’istruzione scolastica forse una soluzione unica al disagio sociale riflesso nelle paure e nelle loro interpretazioni politiche, che tanto allarmano quanto lasciano impotenti, e all’analfabetismo: il potenziamento della capacità di ragionamento e critica insieme alla conoscenza storica il più obiettiva possibile dovrebbero portare a un approccio naturale, ma critico e mirato, della conoscenza dei processi e dei meccanismi politico-economici del sistema globale e italiano fin dall’adolescenza, insieme agli eventi storici che ne hanno reso necessaria la creazione.
Questo indurrebbe a una confidenza con e a un’interiorizzazione dei funzionamenti e delle istituzioni in modo che se ne abbia una maggiore confidenza e un minore senso di distacco e inadeguatezza rispetto a questi aspetti della vita democratica. Al’’estero si inizia a dibattere dell’introduzione di un patentino di voto, ma una seria riforma dell’insegnamento dell’educazione civica potrebbe essere una soluzione più costruttiva. Parallelamente, si potrebbe pensare a una campagna e a una politica di consapevolezza e informazione della fascia di popolazione già adulta, vera maggioranza di oggi e domani in Italia a causa dell’inversione della piramide demografica.
Da che mondo è mondo, ciò che si conosce si teme di meno e dalla conoscenza reciproca nasce la collaborazione, ma è necessarie la volontà e l’azione politica mossa dalla lungimiranza e da un sincero interesse per una società più sana: il benessere dei cittadini di oggi e di domani vale più di una tornata di elezioni e di un mandato elettorale rinnovato. Questo i politici e gli elettori riescono a comprenderlo?