Ue: clima e migranti, occasione per integrarsi o bomba a orologeria
Non si può fare a meno, in questi giorni, di dedicare qualche pensiero al ruolo che la politica può (o dovrebbe?) avere nella gestione dei fenomeni migratori. In questo contributo, si avanza una riflessione sull’opportunità di determinate politiche, anche alla luce di quanto si conosce sulla complessa relazione fra riscaldamento globale e flussi migratori, fra clima e migranti.
Uno sguardo al futuro prossimo
Da qualche decennio si parla di ‘rifugiati climatici’, ovvero di coloro i quali sarebbero costretti o spinti a lasciare il proprio Paese (anche) a causa di degradazioni ambientali causate dal riscaldamento globale, quali desertificazione, innalzamento del livello degli oceani e eventi meteorologici estremi (alluvioni, tempeste, siccità, etc).
Grazie alla climatologia ed agli studi in materia di migrazione, sappiamo oggi con un non trascurabile grado di certezza che i cambiamenti del clima, aumentando la probabilità e l’intensità di simili fenomeni, sono un fattore di medio-lungo periodo determinante sul “quanto e come” dei flussi migratori: micro-Stati insulari come Kiribati o Tuvalu potrebbero essere sommersi e diventare inabitabili; in Bangladesh, decine di milioni di persone che abitano a meno di un metro dal livello degli oceani saranno spinte a lasciare le proprie abitazioni e lo stesso accadrà in vaste regioni africane o mediorientali, soggette a sempre più dure siccità.
È, però, azzardato avanzare previsioni accurate riguardo al numero di soggetti coinvolti, data la multi-causalità alla base di ogni fenomeno migratorio. C’è chi ha parlato di 750 milioni di individui al 2050, chi – come le Nazioni Unite – si limita ai 200-250 milioni e chi addirittura sostiene che il concetto stesso di “rifugiato climatico” sia in realtà completamente fuorviante.
L’indeterminatezza delle previsioni
Se non è possibile affidarsi a previsioni accurate, è però certo che, con l’aumentare del riscaldamento globale, i flussi migratori aumenteranno a loro volta, ponendo eccezionali sfide sul piano della gestione, tanto sul lato del rispetto dei diritti dei migranti quanto su quello della tutela delle comunità di accoglienza (in questo senso, si può guardare al fenomeno attraverso i prismi della ‘humanitarian’ o della ‘security agenda’).
In tutto ciò, una breve parentesi appare necessaria: rispetto al 1850, la temperatura media terrestre è aumentata di quasi 1°C. Stando all’Accordo di Parigi, la comunità internazionale dovrà riuscire a mantenere tale aumento entro i 2°C al 2100, pena il possibile collasso (per dirla con Jared Diamond) del sistema internazionale per come oggi lo conosciamo. In altri termini: se avremo successo nella mitigazione del riscaldamento globale (“and that’s a quite big if”), vivremo nei prossimi decenni un raddoppio della temperatura media terrestre rispetto a quello occorso fino ad oggi.
Clima, conflitti e migrazioni oggi
Nonostante questo, con un aumento di 1°C, siamo già oggi in presenza di fenomeni migratori rilevanti legati ai cambiamenti del clima. Nello scoppio del conflitto siriano, ad esempio, ha giocato un ruolo decisivo la siccità più dura mai sperimentata a memoria d’uomo nella zona della Mezzaluna Fertile, fra il 2006 ed il 2011. Il tema è stato ampiamente ripreso a livello accademico, politico e mediatico (l’ex segretario di Stato Usa John Kerry ha ad esempio dichiarato: “I’m not telling you that the crisis in Syria was created by climate change. But the devastating drought clearly made a bad situation a lot worse”).
Recentemente, il Consiglio di Sicurezza Onu, in due risoluzioni (2349/2017 e 2408/2018, concernenti rispettivamente la stabilità della regione del Lago Ciad ed il prolungamento della missione Unosom in Somalia) ha identificato negli ‘adverse effects of climate change and ecological changes’ un fattore in grado di contribuire all’instabilità nazionale e regionale.
Siamo, quindi, in presenza dei primi riconoscimenti del riscaldamento globale quale concausa di conflitti e, in taluni casi, anche di fenomeni migratori ingenti. Se, accanto a ciò, consideriamo che, in caso di successo, la temperatura media terrestre aumenterà del doppio rispetto a quanto avvenuto ad oggi, le sfide migratorie (e non solo) cui andiamo incontro si manifestano in tutta la loro evidenza.
Le sfide per l’Italia e l’Unione europea
Attraverso la sola prospettiva italiana e, più in generale, europea, sono per lo più Paesi africani densamente popolati, in rapida espansione demografica, con un’età media alquanto bassa e situati in contesti socio-economici non sempre solidi ed attraenti, ad essere destinati a fornire il maggior numero di ‘migranti climatici’, tanto forzati quanto volontari.
Sembra probabile che nei prossimi anni e decenni i flussi migratori verso l’Unione europea aumenteranno, quali che siano gli sforzi volti a “chiudere i porti” o le frontiere: senza un radicale (nonché difficilmente ipotizzabile) sviluppo dei Paesi di origine, l’Unione ed i suoi Stati membri continueranno a rappresentare per innumerevoli individui una meta ideale.
Sull’onda di quanto sta avvenendo oggi in Italia e su di un piano di opportunità politica, pur nella piena consapevolezza della complessità del fenomeno e, spesso, dell’impossibilità di adottare soluzioni efficaci per la gestione dei flussi migratori in un sistema di Stati sovrani, sembrerebbe opportuno adottare un approccio solidarista: concepire il tema dei migranti in termini di salvaguardia delle persone colpite e non solo in termini di sopravvivenza di una determinata comunità/nazione per come si trova ad essere in un dato istante storico.
Tzvetan Todorov scriveva: “La paura dei barbari è ciò che rischia di renderci barbari. E il male che ci faremo sarà maggiore di quello che temevamo di subire. La storia ci insegna: il rimedio può essere peggiore del male”. Con ciò non si intende sostenere che iniziative di contenimento migratorio debbano essere evitate; si intende sostenere che esse debbano essere intraprese con il duplice obiettivo di mantenere un equilibrio interno e consentire, allo stesso tempo, flussi controllati ed assistenziali per coloro i quali l’emigrazione è forzata.
Pur condannando l’atteggiamento manicheo (che troppo ricorda tempi bui e relativamente recenti della nostra storia nazionale) propugnato dal nostro attuale governo, sembra però doveroso dichiararsi in accordo con un punto centrale delle politiche oggi intraprese: senza una solidale ed integrata politica migratoria europea (e, quindi, senza seri e concreti piani di ricollocamento fra gli Stati membri), un fenomeno in realtà numericamente gestibile rischia, prevalentemente per ragioni emotive e di rigetto, di trasformarsi sempre più in un fattore capace di minare oltremodo il processo di integrazione europea. In questo senso, le attuali posizioni del governo francese, ad esempio, piuttosto che limitare “la lebbra” dei populismi, tendono ad aumentarne la capillare diffusione.
Senza una decisa integrazione delle politiche migratorie a livello sovranazionale, in un clima di condivisione degli oneri che attenui le frizioni nord-sud all’interno della stessa Unione, non è del tutto improbabile che alcune spinte politiche, sfruttando le leve del ‘pericolo migratorio’ (che nei prossimi anni e decenni aumenterà a causa dei cambiamenti del clima), riescano a snaturare e stravolgere il progetto di integrazione europea per come avviato e costruito a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.