Nicaragua: Ortega, storia di una rivoluzione incompleta
Dopo la vittoria nelle elezioni presidenziali dell’ex guerrigliero sandinista Daniel Ortega nel 2006, il Nicaragua è stato a lungo considerato un Paese modello nel continente latino in cui una solida crescita economica era stata coniugata ad una lotta serrata alla marginalità sociale degli strati più poveri della popolazione. Non solo il Pil pro capite crebbe di quasi il 50% tra il 2006 e il 2013, ma la povertà nel Paese crollò dal 48.3% al 29.6%. Superficialmente, potrebbe sembrare la storia di un governo di successo.
Eppure, dal 18 aprile, in Nicaragua è scoppiata una feroce protesta contro il governo di Ortega. Le strade del Paese sono testimoni di scontri giornalieri tra le forze di polizia e gruppi paramilitari filogovernativi contro manifesti civili. La tensione è stata scatenata da un decreto del governo che prevedeva incrementi della pressione tributaria e tagli alla spesa previdenziale. Visto il grado e l’estensione delle proteste, il governo ha deciso, inutilmente, di annullare il decreto nella speranza di placare la reazione di una parte della popolazione nicaraguese, ma gli scontri sono solo andati peggiorando.
Malcontento popolare e personalizzazione del potere
La frattura tra il governo di Ortega e la popolazione nicaraguense ha radici ben più profonde. La crisi affonda nella progressiva personalizzazione del potere di Ortega e della sua famiglia.
Dopo quasi due mesi di scontri e circa 212 manifestanti morti, nella notte tra il 15 e il 16 giugno, a sorpresa, era stato raggiunto un accordo fra il governo nicaraguense e l’Alleanza Civica dell’opposizione per creare una commissione internazionale d’inchiesta sulle recenti violenze.
L’accordo, nato anche dalla cruciale mediazione dalla Chiesa cattolica, prevedeva l’istituzione di una Commissione per la verità e l’ingresso nel Paese di osservatori internazionali delle Nazioni Unite, della Commissione interamericana dei diritti umani e dell’Unione europea, per indagare su tutti i decessi e gli atti di violenza degli ultimi due mesi. Durante le trattative, il cardinal Leopoldo Brenes ha anche dichiarato di aver schiesto al presidente Ortega di anticipare le elezioni dal 2021 al 2019 per legittimare la democrazia del Paese, proposta però rifiutata dal governo.
Nonostante l’ufficialità, l’accordo è rimasto sospeso mentre la tensione continuava a salire. Il dialogo è stato ripreso solamente il 25 giugno e per il giorno successivo è stato previsto l’arrivo dell’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, che, insieme ad altri funzionari, dovrà verificare il rispetto dei diritti umani nel paese,
Il rivoluzionario Ortega
La figura di Daniel Ortega incarna la storia recente del Nicaragua. Ortega iniziò la sua carriera politica come uno dei leaders della guerriglia sandinista che nel 1979 destituì, dopo più di quarant’anni, la dittatura dinastica dei Somoza. Prima a capo della giunta di governo e poi eletto presidente nelle elezioni del 1984, il primo ciclo al potere di Ortega si chiuse con una sconfitta bruciante alle elezioni del 1990. Una lezione che Ortega non ha più dimenticato.
Tornato alla testa del Paese con le elezioni del 2006, Ortega ha lentamente consolidato il suo potere personale. L’opposizione è stata gradualmente espulsa dal parlamento, estraniando anche dal processo democratico esponenti di spicco del Movimento rinnovatore sandista (Mrs) che si erano fatti portatori di un messaggio di rinnovamento a nome della rivoluzione sandista. Inoltre, la Costituzione è stata modificata per permettere a Ortega di correre per il terzo mandato consecutivo nel 2016, vinto poi con il 76% dei voti, sebbene le elezioni siano state ritenute illegittime da gran parte della comunità internazionale.
L’esperienza del governo di Ortega è particolarmente interessante perché, nonostante la retorica fortemente rivoluzionaria, il suo approccio in politica economica è stato pragmatico. Non ha nazionalizzato le risorse nazionali, come Chavez in Venezuela, ma ha incoraggiato il flusso di investimenti esteri attraverso la stabilità degli indicatori macroeconomici. In effetti, il Nicaragua oltre a essere un paese economicamente stabile, con un’inflazione relativamente bassa, di circa il 5,7% nel 2017, e con una crescita economica attestata sul 4,2% nell’ultimo decennio, può vantare accordi di libero scambio con l’Ue e gli Stati Uniti.
L’opportunismo politico di Ortega di giocare nell’ambiguo paradosso tra propaganda socialista e realismo capitalista gli ha permesso di sfruttare la stabilità per guadagnarsi il silente appoggio della Chiesa cattolica e di parte della classe imprenditoriale nicaraguense. A testimonianza della fluttuante personalità politica di Ortega, nel 2007 il suo governo ha approvato una legge che proibiva ogni tipo di aborto. Paradossalmente, di fronte al recente rischio di insolvenza del sistema previdenziale, Ortega ha preferito seguire ortodossamente le direttive dell’ Fmi con il taglio radicale delle pensioni e dei sussidi, piuttosto che ratificare riforme alternative.
Cambia il vento in Sud America
La fragilità politica di Ortega si inserisce in un contesto ideologico regionale più ampio, in cui la cooperazione tra governi di sinistra in America latina sta attraversando una fase critica. In particolare, l’economia nicaraguese soffre la recessione del Venezuela, con cui aveva sviluppato una cooperazione strategica. La vicinanza ideologica tra Chavez e Ortega ha permesso al Nicaragua di ottenere condizioni vantaggiose di scambio commerciale. Nel 2010 il Nicaragua ha acquistato petrolio dal Venezuela beneficiando di circa $500 milioni di sconto, cioè il 7.6% del Pil nicaraguense. Secondo l’ Fmi, il 62% dei fondi provenienti dal Venezuela sono stati destinati a compagnie private sotto il diretto controllo o influenza di Ortega e sono stati impiegati in attività edilizia, telecomunicazioni, turismo, sicurezza e agricoltura. Solo il restante 38% è stato usato per finanziare programmi sociali.
La stretta cooperazione con il Venezuela ha permesso al governo di Ortega di finanziare programmi di assistenzialismo sociale per consolidare la base del consenso e di mantenere degli indicatori macroeconomici positivi. Chiaramente, la profonda crisi economica e umanitaria del Venezuela ha duramente colpito il Nicaragua, rivelando gli squilibri economici e sociali del Paese.
La sempre più stringente dipendenza del Nicaragua dalle istituzioni internazionali potrebbe giocare a favore di una transizione verso la legittimazione democratica del Paese. Se gli Stati Uniti dovessero decidere di bloccare gli aiuti al Nicaragua, il Paese perderebbe circa il 60% dei fondi dell’ Fmi e della Banca Mondiale che andrebbero a finanziare progetti infrastrutturali.