Migranti: le ricette dell’Europa tra incertezze e differenze
Questo è il terzo e ultimo pezzo di un trittico dedicato dall’ambasciatore Francesco Bascone al tema dei migranti: il primo è stato pubblicato il 10 luglio e il secondo il 16 luglio.
Il Consiglio europeo di fine giugno, dominato dal ricatto del partito democristiano bavarese (Csu), ha messo da parte le preoccupazioni dell’Italia e gli scrupoli per il trattamento cui vanno incontro i naufraghi ‘salvati’ dalla guardia costiera libica per concentrarsi sul problema della migrazione secondaria, cioè in primo luogo del passaggio di migranti dall’Italia, attraverso l’Austria, alla Baviera, che sfrutta il sistema di Schengen, ossia delle frontiere interne aperte. Il ministro dell’Interno tedesco Seehofer è deciso a impedire ulteriori afflussi e a scaricare i migranti già entrati verso l’Austria, la quale è invitata a rivalersi sull’Italia. Altri filtri, o barriere, andranno creati ‘a monte’, nel Mediterraneo, in Libia, nei Paesi di transito (Sahel); ma al riguardo le idee appaiono ancora alquanto vaghe.
Rafforzare le frontiere esterne…
E’ questo il leitmotiv della presidenza austriaca, ed è questa la soluzione (vedremo quanto realistica) che la maggioranza dei Paesi membri contrappone alla richiesta italiana di condivisione della accoglienza. Noi pensiamo alla frontiera marittima, ma quando si parla di dotare Frontex di diecimila uomini entro il 2020 si intende anche la frontiera terrestre sud-orientale. La crisi del 2015 venne in qualche misura arginata solo grazie alla chiusura della rotta balcanica (in sostanza il lavoro sporco che Orban accettò volentieri di fare e che la Merkel criticò pur beneficiandone) e grazie all’accordo con la Turchia. Questo accordo potrebbe non durare in eterno, e si sta delineando un nuovo flusso balcanico attraverso Grecia, Albania, Montenegro e Bosnia-Erzegovina.
… e le differenze tra frontiera terrestre e frontiera marittima
Come si è visto nel 2015, la frontiera terrestre può essere chiusa fisicamente se si è pronti ad usare mezzi drastici come la costruzione di muri e barriere metalliche. La frontiera marittima no, a meno di prendere in considerazione mezzi ancora più drastici, come lasciar annegare i naufraghi o sparare sui barconi. “Rafforzare la frontiera mediterranea” è un’espressione che ha senso solo se si acquisisce il controllo delle coste nord-africane e si riesce ad impedire gli imbarchi; oppure se, come si intende fare, si forniscono navi e attrezzature sofisticate alla guardia costiera libica e se si consegnano ad essa i naufraghi raccolti nella fascia di mare (Sar) di sua competenza. Cosa che suscita serie perplessità sul piano umanitario.
Finché perdura l’attuale stato di anarchia in Libia non è realistico sperare di impedire l’attività degli scafisti, né i maltrattamenti inflitti dalle forze di sicurezza libiche e dalle milizie ai migranti respinti.
Gli ‘hotspots’ tra potenzialità e ambiguità
Sul piano umanitario, appare preferibile regolare e frenare il flusso mediante i cosiddetti ‘hotspots’ in paesi a Sud della Libia, compresi quelli di origine. In linea di principio sarebbe opportuno che tali centri, affidati all’UnHcr e all’Oim e spesati dall’Ue, venissero incaricati non solo di identificare e consigliare i migranti ma anche di esaminare le domande di asilo, spedire indietro chi non vi ha diritto, fare viaggiare in aereo verso l’Europa chi è stato accettato.
Ma non sarà facile concordare i criteri in base ai quali stabilire il Paese di destinazione. L’ideale, dal punto di vista italiano, come pure per gli interessati, sarebbe la libera scelta, temperata dalla facoltà di ogni Paese di fissare un tetto annuale e da punteggi che riflettano la presenza di parenti nel Paese prescelto. Si potrebbe anche prendere in considerazione l’obbligo di indicare almeno 3-4 opzioni. Vantaggi evidenti di questo strumento sono da un lato i costi, molto inferiori a quanto si spende nei centri di accoglienza in territorio europeo, e dall’altro l’accorciamento dell’odissea che oggi affrontano i clienti-vittime dei trafficanti. Il principale problema è ottenere l’assenso dei Paesi africani che dovrebbero ospitare questi centri. Basteranno i soldi del Fondo per l’Africa, opportunamente ‘legati’?
Sul termine ‘hotspots’, poi, esiste una certa confusione. Macron non li vuole nei Paesi dell’Africa francofona, ma piuttosto nei Paesi di primo approdo (dove già esistono, ma sono troppo ‘aperti’), e cioè in Italia e Grecia, visto che la Spagna vi si oppone. In sostanza vuole imporci dei centri di smistamento e di rimpatrio chiusi e ben sorvegliati, per impedire la migrazione secondaria. L’Austria ipotizza non tanto dei centri per la gestione delle domande di asilo quanto dei centri di transito in vista del rimpatrio, analoghi a quelli che Seehofer vuole istituire alla frontiera austro-bavarese: li collocherebbe in Albania, offrendo in contropartita di favorire il processo di adesione all’Unione. C’è dunque parecchio lavoro da fare prima di arrivare ad una strategia comune.
Le prospettive del dossier e del fenomeno
Nei prossimi anni e decenni la pressione demografica, la povertà, i regimi oppressivi e i conflitti continueranno ad alimentare un potenziale migratorio superiore a quanto l’Europa sia disposta ad assorbire. Aiuti ed investimenti sono doverosi ma non attenueranno la spinta a emigrare per ragioni economiche. Se i Paesi più ricchi e influenti faranno seri sforzi per mettere fine ai conflitti, finanziare la ricostruzione e pacificazione, esercitare la condizionalità nei confronti di regimi dittatoriali, il numero degli aventi diritto all’asilo o alla protezione sussidiaria potrebbe scendere sensibilmente; questi avranno comunque la priorità nell’accoglienza, mentre verrà fatto il possibile per dissuadere i ‘migranti economici’, respingerli e deportarli, superando gli scrupoli umanitari.
L’Italia rischia di doversi tenere un numero più che proporzionale di migranti non aventi diritto all’asilo. I Paesi transalpini insisteranno per rimandarci indietro in base alle regole di Dublino quelli meno produttivi e si terranno quelli meglio integrabili. E’ giusto continuare a batterci perché vengano dati contenuti concreti al principio di condivisione delle responsabilità. Ma occorre farlo con diplomazia, tenendo conto delle carte non brillanti che abbiamo in mano, tanto più che abbiamo bisogno della comprensione dei partners e della Commissione per i nostri ritardi nel ridurre deficit e debito.
Il negoziato è appena cominciato. Dopo l’incontro informale dei ministri dell’Interno a Innsbruck l’11-13 luglio, in cui il vice-premier Salvini ha ostentato una innegabile affinità ideologica e cercato di occultare il contrasto di interessi con i falchi Seehofer e Kickl (ministro austriaco, presidente di turno del Consiglio dell’Ue), alla problematica migratoria sarà dedicato un apposito Vertice a Salisburgo il 20 settembre.
In questi due-tre mesi dovremmo lavorare per costruire un’intesa con Spagna, Grecia e Malta, ricucire il rapporto con Parigi, trovare aree di convergenza con la cancelliera tedesca, stimolare la Commissione ad elaborare proposte per noi accettabili sul rafforzamento di Frontex e del suo mandato, sugli ‘hotspots’ e su procedure più efficienti e rapide per l’esame delle domande di asilo.