Migranti: l’Italia isolata nell’Unione non detta l’agenda
Questo è il secondo pezzo di un trittico dedicato dall’ambasciatore Francesco Bascone al tema dei migranti: il primo è stato pubblicato il 10 luglio.
L’Italia è convinta di subire, a causa della sua posizione geografica, tutto l’impatto dell’ondata migratoria e di potere pretendere dai partners comunitari una piena condivisione dell’onere di assorbire e integrare sia i profughi che i migranti. Se l’Unione europea non garantisce questa solidarietà – avverte il vice-premier Salvini – ci riserviamo di tagliarle il nostro contributo netto. Le richieste principali sono: modificare il regolamento di Dublino che scarica l’onere di accertare la condizione di rifugiato – o meno – del richiedente asilo sul Paese di primo approdo, e attuare la decisione (rimasta lettera morta, o quasi) di ripartire proporzionalmente fra i 28 paesi 160mila rifugiati recenti e tutti i nuovi arrivati. Sono richieste legittime in linea di principio, ma irrealistiche data la debolezza negoziale e l’isolamento diplomatico del nostro Paese.
E’ giustificata l’insistenza sulla redistribuzione dei migranti?
I dati relativi agli sbarchi misurano l’impegno profuso dall’Italia, e dagli altri Paesi di prima linea, nella prima accoglienza, e giustificano la richiesta di aiuti da Bruxelles. Ma ci dicono poco sulla ripartizione degli oneri di assistenza a medio termine, dato che di coloro che sbarcano in Italia molti riescono a proseguire verso la Francia, la Germania, la Svezia e altri Paesi. Ad esempio, la spesa annua che affronta l’Austria (1,7 miliardi) è, in proporzione, il doppio di quella dell’Italia (5 miliardi).
Se ottenessimo l’attuazione del principio della distribuzione fra un gruppo di Stati membri volenterosi (inutile tentare di costringere i Visegrad e i Baltici a partecipare), rischieremmo di dover integrare la nostra quota. La ripartizione forzata è oltretutto problematica in quanto, se si mantiene o ristabilisce la libera circolazione (Schengen), sarà difficile costringere i migranti che hanno parenti in Germania o Olanda a restare in Romania o Ungheria.
Tollerare il rifiuto del gruppo di Visegrad?
I quattro Paesi centro-europei, così come i tre Baltici, tutti di indipendenza piuttosto recente e reduci da invasioni subite e fasi di sovranità limitata, sono gelosi della riconquistata identità nazionale e religiosa e convinti che la storia e la geografia hanno imposto loro sacrifici sufficienti: siano perciò gli altri europei ad affrontare l’attuale emergenza e, se rifuggono da metodi drastici come quelli adottati nel 2015 dall’Ungheria per chiudere la rotta balcanica nell’interesse di Germania, Austria e Svezia, che ne sopportino le conseguenze.
Si potrebbe ricordare loro che l’Europa occidentale accolse varie ondate di loro profughi dopo la Seconda Guerra Mondiale e la sovietizzazione (è questa, come già accennato, l’origine della Convenzione di Ginevra del 1951) e dopo le invasioni del 1956 e 1968. Ma le attuali generazioni di elettori e politici non si sentono in debito con la storia, bensì in credito. Impossibile indurli a rinunciare a questo “sacro egoismo”. La signora Merkel ne ha preso atto e per questa ragione ha ripiegato sul concetto di volontarietà.
Bilancio deludente del Consiglio europeo. Poteva Conte ottenere di più?
Come osservato da tutti i commentatori nostrani, il vertice del 28-29 giugno ha prodotto solo vaghe dichiarazioni di principio sulla solidarietà con i Paesi di primo impatto e in particolare il nostro. Il premier Giuseppe Conte non ha ottenuto l’impegno a rivisitare l’accordo di Dublino e a rendere obbligatoria la ripartizione dei nuovi arrivati (magari con un opt-out per i Visegrad): ma ciò era scontato.
Lo critica chi crede che l’agenda della riunione fosse dettata dalle legittime istanze dell’Italia, opportunamente evidenziate dal pugno sul tavolo di Salvini. Al primo posto figurava invece l’esigenza (antitetica) di salvare la signora Merkel, messa con le spalle al muro dal ricatto della Csu e del ministro dell’Interno Seehofer. E quindi la questione centrale era quella della migrazione secondaria e l’Italia veniva a trovarsi sulla difensiva.
Un compromesso fra migrazione secondaria e parziale ridistribuzione
Ciò che la cancelliera, costretta dal suo alleato Csu, offre ai paesi di primo approdo (Spagna e Grecia hanno accettato) è di accogliere su base volontaria alcuni dei richiedenti asilo da poco sbarcati, purché quei governi si siano impegnati a riprendere i migranti passati al Nord dopo essere stati registrati sul loro territorio; e raccomanda ad altri Paesi membri ragionevoli di fare altrettanto.
Ciò significa che sarà Berlino (e analogamente i governi di quei Paesi moderati) a decidere quanti ‘Asylanten’ accogliere da Spagna e Grecia (e dall’Italia se finirà per accettare), e sarà sempre Berlino a scegliere i migranti ‘secondari’ da consegnare loro, tenendosi i più produttivi e più integrabili. Anche altri leaders dell’Europa occidentale, da Macron a Kurz, si mostrano disponibili ad accogliere boat people purché abbiano diritto all’asilo. Per quanto riguarda i semplici migranti in fuga da povertà e disoccupazione, l’Italia – insieme alla Grecia e alla Spagna – rimane col cerino in mano. Uno scambio tutt’altro che vantaggioso.
Aiutarli a casa loro?
Si è detto che il premier italiano si è battuto con successo per uno stanziamento supplementare di mezzo miliardo al Fondo per l’Africa. Ma non era un interesse specificamente italiano, e contribuirà in misura trascurabile ad alleviare la pressione migratoria. Il ‘Piano Marshall per l’Africa’ è il toccasana proposto da coloro che vogliono frenare i flussi ma rifuggono da misure drastiche per impedire il traffico dei gommoni. Ma “aiutarli a casa loro”, con pochi miliardi in aiuti e investimenti, non è una soluzione alternativa. E’ un imperativo morale, politico, economico, umanitario.
Può servire, se si adotta una qualche forma di condizionalità, ad incentivare i governi dei Paesi di origine a ridurre le violazioni dei diritti umani e a firmare accordi di riammissione, o quelli di transito ad istituire hotspots; ma non a combattere la disoccupazione. Se da un lato verrà infatti creato un modesto numero di posti di lavoro atto ad assorbire una minima parte della crescita demografica, dall’altro verrà fornita una formazione professionale a un maggior numero di africani che non troverà sbocchi nell’economia locale e sarà spinto ad emigrare. Nell’insieme la molla demografica all’emigrazione dall’Africa, come da Pakistan, Bangladesh e alcuni altri Paesi sovrappopolati, non verrà allentata da aiuti e investimenti.
Dobbiamo constatare che era un’illusione dettare l’agenda del Consiglio europeo; a dettarla è stata la politica interna tedesca; e il tema centrale non è stato il regolamento di Dublino bensì i ‘movimenti secondari‘. Non alleviare il fardello dell’Italia, ma costringerla a riprendersi quella parte di cui si era discretamente alleggerita. Bene ha fatto il professor Conte a non cedere.