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Etiche contro

Migranti: conflitto fra diritto all’accoglienza e alla sicurezza

8 Lug 2018 - Giorgio Gomel - Giorgio Gomel

Nel dibattito contemporaneo sulle migrazioni mondiali affiora, spesso in forme indirette, un dilemma etico-politico che scaturisce dal contrapporsi fra un’etica dell’ospitalità e un’etica della sicurezza. La prima risponde all’imperativo umanitario di salvare vite umane in pericolo; la seconda prescrive di affermare e difendere in primo luogo il diritto “verso noi stessi” rispetto a quello degli altri.

Dalla filosofia politica ai simbolismi identitari
In altri termini e in una prospettiva di filosofia politica, la difficoltà sta nel conciliare il diritto di migrare – un diritto universale, cosmopolitico – di coloro che, spinti da guerre, persecuzioni e violenze o da condizioni di povertà, fame e disastro ambientale, sono alla ricerca di condizioni di vita più propizie, con il diritto-dovere degli Stati di difendere i propri confini ed erogare ai cittadini il bene pubblico della sicurezza. Tale diritto si applica sia nell’ambito della convenzionale sovranità dello stato-nazione sia nella forma più complessa di una sovranità sovrannazionale, come nel caso dell’Unione europea.

Il dilemma si complica, diventa conflitto politico, assume toni spesso di isteria nazionalista quando, come oggi in Italia e in altri Paesi europei, la tutela dei confini si colora e carica del simbolismo identitario del possesso di un territorio da difendere contro lo “straniero invasore”, di un’identità etnica autoctona da preservare contro gli immigrati, percepiti come una minaccia per quell’identità.

Le ragioni e le categorie un po’ fittizie delle migrazioni
Le migrazioni internazionali nascono da un insieme di fattori. Lo squilibrio demografico fra aree del mondo e le disuguaglianze di reddito e ricchezza ne sono le determinanti principali, come conferma da anni la ricerca empirica in materia. Io stesso, nell’occuparmi del tema in un contesto storico assai diverso dall’attuale nei primi Anni ’90, argomentavo che l’obiettivo fosse quello di regolare i movimenti migratori agendo sui fattori endogeni di spinta nei Paesi d’origine, prescindendo da quelli demografici che agiscono nel lungo periodo; in altri termini, si doveva orientare la politica economica in loco a ridurre i dislivelli di reddito e a promuovere l’occupazione, stimolando gli investimenti in produzioni a basso rapporto capitale/lavoro, quali l’agricoltura e la manifattura leggera nonché le esportazioni aprendo le economie arretrate agli investimenti esteri e ai trasferimenti di tecnologie (in Roberto Aliboni ed., L’Europa fra est e sud : sicurezza e cooperazione, IAI e Franco Angeli, 1992) .

La stessa distinzione così enfatizzata nel dibattito odierno (vedi il recente Consiglio europeo) fra migranti economici e rifugiati è fuorviante. I motivi che spingono ad emigrare sono spesso intrecciati e indistinguibili, anche se l’architettura giuridica prevista per l’accoglienza e il successivo trattamento è differente (si vedano per i secondi la Convenzione di Zurigo del 1951 e le norme e prassi in materia di diritto d’asilo e di protezione internazionale affermatesi in ambito multilaterale).

Dalla Conferenza di Evian a oggi, poche lezioni imparate
Il linguaggio, le argomentazioni per respingere profughi e/o migranti non sono cambiate negli anni. Quando esattamente 80 anni fa i Paesi occidentali si riunirono nella Conferenza di Evian soprattutto per impulso del presidente Usa Roosevelt per affrontare il dramma degli ebrei tedeschi fuggiaschi dal regime nazista e alla ricerca di un ‘porto sicuro’, il numero di profughi ammessi sul suolo dell’Europa e delle Americhe fu tragicamente limitato. La decisione così funesta nelle sue conseguenze per lo sterminio degli ebrei d’Europa fu motivata con la disoccupazione, le difficoltà economico-sociali nei Paesi riceventi, l’ordine pubblico, ecc.

Hannah Arendt, lei stessa emigrata dalla Germania negli Stati Uniti e attiva fino all’ultimo nella Francia occupata per salvare ebrei e antinazisti in fuga, scrisse qualche anno dopo nel suo saggio sulle Origini del totalitarismo: “La disgrazia degli individui senza status giuridico non consiste nell’essere privati della vita, della libertà, del perseguimento della felicità, dell’eguaglianza di fronte alla legge e della libertà d’opinione, ma nel non appartenere più ad alcuna comunità..”

Le ragioni della difesa della identità culturale
Alcuni giuristi e filosofi politici sostengono oggi che vi sia una ragione profonda di carattere etico-politico per limitare l’immigrazione, al di là dei motivi economico-pratici noti – limiti alla capacità di assorbimento di immigrati, costi e complicazioni nella gestione dell’accoglienza e del processo di integrazione successivo – e anche al di là di ragioni dettate dalle contingenze politiche nei Paesi di destinazione, ovvero il prevenire o contenere pulsioni xenofobe mosse dalla paura, spesso ingigantita da una retorica “dell’invasione” agitata da opinion leaders, partiti e mass media della destra estrema.

La ragione starebbe nel difendere le identità culturali della “maggioranza”. Vi sarebbero in altri termini “diritti di maggioranza” analoghi a quelli “di minoranza”, cioè identità e interessi di culture maggioritarie da coltivare e preservare. Ciò sarebbe il corrispettivo in un certo senso dell’idea affermatasi negli ultimi trenta o più anni di una società multiculturale, in cui le differenze etniche, religiose, culturali delle diverse comunità, soprattutto di minoranza, siano riconosciute come legittime, anzi benefiche per tutti, rispettate e garantite dallo stato nello spazio pubblico.

In cosa dovrebbe tradursi dunque questa difesa delle nazioni ? Attraverso strumenti normativi come regole di naturalizzazione, cittadinanza, istruzione, ius culturae, obblighi dell’ apprendimento della lingua del Paese ricevente , o anche misure legali per una selezione dei migranti sulla base di criteri “etnici” o imponendo agli stranieri accolti modi e norme di comportamento simili a quelli della “maggioranza “.

Un argomento su cui riflettere e che non ammette risposte facili.