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Formazione non solo religiosa

Marocco: quando il soft power passa per gli imam

22 Lug 2018 - Viola Siepelunga - Viola Siepelunga

Tutto è iniziato dopo gli attacchi terroristici di Casablanca del 16 maggio 2003, i più letali nella storia del Marocco. Il secondo campanello d’allarme è invece arrivato da Madrid, quando, nel 2004, 15 marocchini sono stati coinvolti nell’attentato alla metropolitana. La casa reale ha quindi capito che era giunta l’ora di mettere mano a una riforma dell’Islam, per epurarlo dall’influenza esterna – in primis da quella wahabita proveniente dall’Arabia Saudita – e riportarlo alle sue origini.

La riforma dell’islam marocchino
Da un punto di vista operativo, le prime misure hanno previsto il censimento delle moschee, con la chiusura di quelle non agibili; lo stipendio regolare per gli oltre 45mila imam; e la nomina della prima mouchidates, ovvero la prima donna imam. Profonda poi la riflessione aperta sulla natura dell’Islam marocchino. Un percorso che porta alla definizione della così detta terza via malikita, dal nome della scuola coranica sunnita prevalente in Marocco.

Questo processo ha portato in primis a una messa in sicurezza della religione, difendono lo spazio religioso marocchino dalle pericolose influenze esterne, ad esempio controllando, legalmente e burocraticamente, il clero. Tutto ciò ha condotto alle riforme del consiglio degli Ulema, del ministero referente degli Affari religiosi e del processo di formazione degli imam. Emblematica è stata, nel 2015, l’apertura dell’Istituto Mohammed VI per la loro formazione.

Un secondo processo si è invece concentrato sul recupero della tradizione religiosa marocchina, soprattutto di tre dei suoi pilastri: il dogma secondo il quale ogni nuova esegesi coranica deve ottenere l’approvazione delle autorità religiose per essere valida; il privilegio degli interessi generali nell’interpretazione della legge islamica – cosa che permette di adattare l’Islam a un mondo in continua evoluzione -; la rivalutazione del sufismo – la corrente mistica dell’Islam -; e la proiezione del Marocco come modello religioso in primis a livello regionale, ma con il tempo a livello globale.

Politica a parte – sul tema servirebbe un’analisi a sé -, il Marocco è quindi diventato un esempio da emulare in tema di riforma religiosa, grazie al suo successo nell’affermazione di un Islam autentico, profondo e aperto al dialogo. A mostrarlo è stata in primis la Dichiarazione di Marrakech del gennaio 2016, il frutto del lavoro di oltre 250 leader religiosi e studiosi musulmani che partendo dalla Carta di Medina – il documento che stilò il profeta Maometto quando si spostò in questa città da La Mecca, instaurandovi la prima comunità musulmana – dichiara inconcepibile ogni discriminazione o aggressione di minoranze religiose presenti all’interno dei Paesi a maggioranza musulmana.

Alla fine dello stesso anno, la Rabita Mohammadia, importante organizzazione di Ulema, pubblica inoltre una serie di quaderni scientifici che mirano a decostruire l’uso strumentale che gli estremisti – e tra loro i miliziani di Al-Baghdadi – fanno di alcuni concetti musulmani per giustificare le violenze da loro commesse. Nel 2017 poi, un’altra svolta storica. Il Consiglio degli Ulema- con sette donne tra i suoi 18 membri – afferma la libertà di scelta per chi vuole uscire dall’Islam e cancella la condanna a morte per apostasia – condanna che solo cinque anni prima lo stesso Consiglio aveva affermato con una sua fatwa.

Modello di Islam globale
I primi a guardare Rabat come modello religioso sono stati i Paesi africani, attratti anche dalla fondazione, sempre da parte marocchina, del Consiglio degli Ulemaafricani. Nato nel 2016, questo è diventato un forum destinato a unificare e coordinare gli sforzi degli studiosi musulmani del Marocco e di altri Stati africani, al fine di comunicare, diffondere e consolidare i valori di tolleranza dell’Islam. La missione formativa di questo nuovo consesso ha spinto l’Istituto Mohammed VI ad aprire le sue porte agli imam stranieri. Oltre ai 250 imam marocchini (tra i quali 100 donne) sono circa 500 gli studenti stranieri, provenienti dal Mali (212), dalla Guinea (100), dalla Costa d’Avorio (75), dalla Tunisia (37) e anche dalla Francia (23).

La frequenza dell’Istituto Mohammad VI da parte di imam francesi mostra fino a che punto il Marocco punta a mantenere il legame con le comunità musulmane della diaspora, offrendo ai Paesi europei sui quali si estende la sua influenza un’interpretazione tollerante dell’Islam.

Nel 2006, nasce in Francia l’Associazione dei musulmani di Francia, un organismo che tra le sue varie attività coordina le missioni degli imam inviati dal Marocco nel quadro di un accordo con Parigi. Nel 2008 è istituito a Bruxelles il Consiglio europeo degli Ulema marocchini, un ente a si affida il compito di “stabilire in Europa un quadro di riferimento religioso marocchino per la comunità di musulmani marocchini” e che si presenta come “faro di un Islam moderato in una società plurale”. Nel 2014 viene infine varato in Catalogna il “Piano Marocco 2014-2017”, un progetto che attribuisce al Regno di Mohammad VI prerogative molto ampie nella cura e nell’istruzione religiosa dei musulmani catalani.

E in Italia?
Anche nel nostro Paese, i rapporti con il Marocco sono abbastanza stretti, in particolare con la moschea di Roma e la Confederazione islamica italiana. Da un anno poi, l’università di Siena e quella di Arezzo stanno collaborando a un corso in arabo e in italiano che mira a formare predicatori musulmani. Se Siena si occupa delle scienze legate alle scienze umane e sociali, l’accordo stipulato riconosce all’università marocchina una competenza specifica nell’insegnamento delle scienze islamiche.

Fino a solo pochi anni fa, la formazione dei leader musulmani era lasciata all’iniziativa delle comunità islamiche, le prime ad essere consapevoli del pericolo delle guide autodidatte.

La situazione, come ben ricorda la rivista Oasis, è iniziata cambiare nel 2010, quando il Fidr (Forum Internazionale Democrazia e Religioni, un centro di ricerca interuniversitario) ha lanciato il progetto “Nuove presenze religiose in Italia”, un percorso di formazione principalmente rivolto ai rappresentanti dell’associazionismo musulmano. Nel 2014 è poi nato a Padova un master in Studi sull’Islam d’Europa, al quale aderiscono le principali associazioni islamiche italiane. Corso simile è quello di Ravenna, organizzato anche in questo caso da un consorzio di università e finanziato dal ministero dell’Interno. Più che una vera e propria formazione per predicatori o imam, questi percorsi offrono un’educazione complementare, con un forte accento sulla dimensione civica dei responsabili delle comunità islamiche, lasciando a queste ultime la formazione teologica dei loro membri.

La necessità alla quale si cerca di dare una risposta, è quella messa nero su bianco sul documento del 2016 del Consiglio per i rapporti con l’Islam italiano, dove si parla proprio della necessità di offrire una formazione “contestualizzata” per leader religiosi, che siano “cittadini attivi” capaci di “favorire l’educazione alla cittadinanza”.