Kosovo: tra i giovani che sognano di poter viaggiare
Il Kosovo, ultimo Paese europeo a dichiarare la propria indipendenza, sta ancora affrontando un processo di state-building, a dieci anni dalla propria nascita. Le istituzioni internazionali svolgono ad oggi un ruolo decisivo nella messa a punto delle politiche pubbliche e coadiuvano il governo di Pristina, de facto indipendente e sovrano, nell’affrontare varie criticità, spesso di natura prettamente economica.
Benché i kosovari albanesi rappresentino la maggioranza della popolazione – il 92,9% del totale -, numerose minoranze etniche sono presenti all’interno del Paese, come i serbi (localizzati in particolare nella parte settentrionale del Kosovo e in varie enclavi come il quartiere nord di Rahovec/Orahovac, Velika Hoča e Gračanica), ma anche i cosiddetti rae, ossia i rom, gli ashkali e gli egiziani, i turchi, i bosniaci e i gorani. Una differenza non trascurabile tra tali etnie è il culto religioso; la maggioranza degli albanesi kosovari è di fede musulmana sunnita, ma anche il sufismo Bektashi risulta praticato.
Il Kosovo è anche uno dei Paesi più giovani d’Europa, con il 53% della popolazione sotto i 25 anni. I giovani sono costretti a fare i conti con un alto tasso di disoccupazione, l’impossibilità di viaggiare liberamente – appena 38 Paesi al mondo hanno liberalizzato i visti per i kosovari – e un forte senso di frustrazione e disillusione per una vita soddisfacente nel proprio Paese.
Un’economia che non decolla
Uno dei più alti tassi di disoccupazione in Europa si trova proprio in Kosovo. Secondo i dati della Banca Mondiale, il 27,5% della popolazione non aveva un lavoro nel 2016. Il tasso di disoccupazione giovanile desta ancora più preoccupazione: in una società giovane come quella kosovara, il 52,4% dei cittadini tra i 15 e i 24 anni è senza un’occupazione.
A questi dati si unisce il Pil pro capite per potere d’acquisto che non raggiunge gli 11 mila dollari annui, il che fa del Kosovo uno dei Paesi più poveri d’Europa e del mondo. Gli investimenti diretti esteri (Ide) che potrebbero rilanciare l’economia kosovara non sono sufficienti: non solo è difficile distinguere gli Ide veri e propri dagli investimenti della diaspora, ma il Paese non riesce ancora ad attirare un forte flusso di investimenti.
Parte degli Ide è inoltre politicamente motivata: se la Germania ha interesse a estendere la propria influenza su tutta la penisola balcanica, la Turchia sta portando avanti un progetto politico di “neo-ottomanesimo”, ossia la proiezione di Ankara nei territori che, un tempo, facevano parte dell’Impero Ottomano.
Rilanciare l’economia è quindi complesso e a farne le spese sono le categorie più giovani, che difficilmente riescono a inserirsi nel mercato del lavoro e, al contempo, hanno altrettante difficoltà nel ricercare un’occupazione all’estero.
La memoria della guerra
La città simbolo del Kosovo è certamente Mitrovica, con il fiume Ibar che la taglia orizzontalmente diventando un vero e proprio confine naturale. A sud gli albanesi, a nord i serbi. Sul ponte di Austerlitz (in foto), anch’esso emblema della città, i carabinieri appartenenti all’Msu (Multinational Specialized Unit) della Nato cercano di mantenere la situazione sotto controllo, di concerto con la polizia kosovara. Seppure le tensioni si siano notevolmente ridotte rispetto agli anni passati, non è raro che vi siano ancora provocazioni da entrambe le parti del ponte.
Le ultime, in ordine cronologico, sono state alcune manifestazioni spontanee organizzate da studenti serbi alla fine dell’anno scolastico, che si sono risolte in breve tempo e senza che la situazione generale degenerasse.
A Mitrovica nord è presente l’Università di Pristina, che nulla ha a che vedere con l’omonima università che si trova nella capitale. La prima, infatti, era la vecchia università jugoslava che durante la guerra fu abbandonata e nel 2001 fu spostata a Mitrovica nord su decisione del governo serbo. All’interno dell’università, i militari armati non sono ammessi. I membri dello staff, nel momento in cui vedono la presenza di uomini armati, seppur legittimamente, richiedono agli stessi di poter uscire dalle sedi dell’università. I ricordi del conflitto, di cui gli studenti universitari hanno certamente memoria, sono una ferita che è ancora troppo fresca, a nord dell’Ibar come a sud.
La paura di essere in gabbia
Ermal ha 29 anni e gestisce un piccolo bar nella via principale della çarshia, il centro storico ottomano, di Gjakovë/Đakovica, una città di circa centomila abitanti nella parte occidentale del Kosovo. La via principale della Çarshia e Madhe, l’antico bazar, collega la tekke di Sheik Emin, luogo di culto della comunità sufi, alla moschea Hadum, costruita alla fine del XVI secolo, ed è ricca di bar gestiti tutti da ragazzi come Ermal.
La più grande frustrazione per i giovani è dover rimanere bloccati in Kosovo, senza la possibilità di viaggiare e conoscere Paesi e culture lontani.
La mancata liberalizzazione dei visti impedisce alla maggior parte di loro di muoversi liberamente per l’Europa, così come di studiare o cercare un lavoro all’estero.
La Commissione europea ha dato un parere positivo sulla liberalizzazione dei visti il 18 luglio scorso; ma si tratta solo di un passaggio che dovrà ancora essere approvato dal Parlamento europeo e dal Consiglio dell’Unione. Proprio tra gli Stati membri, l’ostacolo è rappresentato da quei Paesi, ancora scettici, che temono che la liberalizzazione dei visti possa aprire le porte a un forte flusso migratorio incontrollato dal Kosovo. E così, ad oggi, l’accesso alle università straniere avviene spesso grazie a parenti che già vivono all’estero o a doppie cittadinanze e, quindi, doppi passaporti.
Ma la maggioranza dei giovani non possiede questa fortuna e quando si entra in confidenza con loro non è raro sentire, come Ermal ha detto nel momento degli arrivederci, l’augurio di incontrarsi “in una prossima vita”.
Foto di copertina © Nicola Cavallotti