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Malcontento e futuro del Jcpoa

Iran: moderati in bilico tra pressioni interne ed esterne

17 Lug 2018 - Ludovico De Angelis - Ludovico De Angelis

Da alcuni mesi, la Repubblica islamica d’Iran subisce pressioni interne ed esterne che minacciano la stabilità dell’esecutivo moderato guidato da Hassan Rohani, e scalfiscono le operazioni della Guardia Rivoluzionaria (Irgc) all’estero.

La postura statunitense di “massima pressione” economica e diplomatica sembra produrre un limitato effetto deterrente sulle attività iraniane, sia in materia di cooperazione nucleare (160 membri del Parlamento hanno recentemente inviato una lettera a Rohani chiedendo di limitare i rapporti con l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, Iaea), che di limitazione delle attività delle milizie iraniane o filo-iraniane all’estero, le quali minacciano concretamente Israele.

I rischi per Israele
Ad esempio, come testimoniato da alcune foto, le Abu al-Fadl al-Abbas (milizie irachene filo-iraniane) assieme alla brigata Fateymoun afghana, stazionano tutt’ora in Siria, dove sono impegnate nell’attuale offensiva anti-ribelle per la riconquista dei governatorati di Daraa e Quneitra, a pochi chilometri dal Golan occupato da Israele. A tal proposito, Hossein Salami, vice comandante della Guardia Rivoluzionaria, ha pochi giorni fa affermato che “un esercito internazionale islamico” ai bordi del Golan è pronto a “distruggere” Israele.

A conferma del rischio che corre lo Stato ebraico, ci sono le operazioni militari condotte dalla stessa aviazione israeliana; di recente è stato colpito un deposito di armamenti gestito da iraniani e siriani nella città di Daraa, mentre l’8 luglio il governo siriano ha accusato Israele di aver attaccato una base aerea utilizzata dalle forze Qods nei pressi di Homs (su questa, si tratta del terzo attacco da febbraio). Tali esempi dimostrano come l’Irgc di per sé non stia accusando la pressione posta in essere dagli Stati Uniti e dai suoi partner, essendo ormai arrivata a consolidare numerosi avamposti militari in territorio siriano (nonostante ciò, il direttore del Policy Planning del Dipartimento di Stato americano Brian Hook ha recentemente parlato della strategia Usa come di una leva di behavioral change diretta alla Repubblica islamica).

Il protagonismo dei conservatori
Chi sembrerebbe accusare maggiormente il colpo sono due importanti attori della politica iraniana: la popolazione, che vede la propria condizione economica degradarsi, ed i moderati, rieletti lo scorso anno con la promessa di accrescere il benessere economico degli iraniani tramite lo sviluppo del Paese, facendo perno sulla fine del regime sanzionatorio sancito dall’accordo sul nucleare (Joint Comprehensive Plan of Action, Jcpoa).

L’indebolimento dei moderati sta paradossalmente producendo un riavvicinamento con i conservatori, che tenderebbero la mano ad un governo in difficoltà in cambio, presumibilmente, di una postura maggiormente aggressiva, come fatto notare da alcuni osservatori iraniani.

Dopo anni di tensione infatti, Qasem Soleimani (capo delle Forze speciali Qods) ha lodato le recenti dichiarazioni di Rohani, particolarmente aggressive, che paventavano l’idea di chiudere lo stretto di Hormuz, snodo cruciale del commercio energetico mondiale.

A riprova di ciò, poi, dopo l’uscita degli Stati Uniti dal Jcpoa, alcuni elementi conservatori hanno espresso la volontà di andare ad elezioni anticipate, preconizzando la figura di un presidente militare.

A tutto questo si aggiungono le recenti proteste dei commercianti del Bazaar di Teheran che secondo alcuni analisti sarebbero state scatenate da taluni elementi dell’ala conservatrice al fine di mettere pressione sull’esecutivo, come già accaduto a Mashad sul finire del 2017.

Anche il clero si è poi reso più aggressivo: l’ayatollah Abdul-Karim Abedini, importante autorità religiosa della provincia di Qazvin, ha accusato velatamente Rohani, pregando Allah affinché “tenga lontano dal sistema politico iraniano coloro i quali non sono provvisti del potere, del coraggio e dell’autorità per proteggere il sangue dei martiri e la Repubblica islamica”. Tutto ciò crea un senso di urgenza per i moderati; urgenza di portare a casa una vittoria politica.

Inflazione in rialzo e nuove sanzioni all’orizzonte
La decisione degli Stati Uniti di abbandonare l’accordo sul nucleare, con la conseguente imposizione di sanzioni dirette e secondarie nei confronti sia di individui sia di entità economiche iraniane (dal governatore della Banca centrale al capo del giudiziario, sino ad alcune società implicate nella fabbricazione di missili balistici), ha accresciuto l’incertezza attorno allo sviluppo economico del Paese in termini infrastrutturali, tecnologici ed energetici.

Da aprile ad oggi poi, il rial si è deprezzato notevolmente in rapporto al dollaro, e l’inflazione ha subito un netto rialzo – dal 7,9% al 9,7% – tra aprile e maggio di quest’anno. Inoltre, una nuova ondata di sanzioni statunitensi – in due tranche – si prospetta all’orizzonte.

Il 4 agosto e il 4 novembre (39° anniversario della famosa “presa” dell’ambasciata statunitense nel 1979), comincerà la fase più delicata di questo nuovo processo sanzionatorio. Si colpiranno dapprima i settori automobilistico e dei metalli preziosi e, in un secondo momento, quello energetico e bancario (transazioni da e per la banca centrale iraniana e le entità economiche legate a Teheran), tentando di impedire alla Repubblica islamica di procurarsi hard-currency, ovvero monete rifugio (quale il dollaro) non suscettibili a fluttuazioni improvvise. Tali misure accresceranno enormemente la pressione sull’esecutivo Rohani.

Si riparte da Vienna
Il summit ministeriale di Vienna tra gli attuali Stati parte del Jcpoa ha portato ad una lista di azioni che le parti promettono di intraprendere per preservare i benefici dell’accordo e sancire la sua continuazione.

Tra queste, la garanzia delle esportazioni di petrolio e gas iraniano, il mantenimento di canali finanziari ma, soprattutto, la protezione dalle sanzioni secondarie americane degli agenti economici che faranno accordi con l’Iran.

Vi è però al momento l’urgenza di suffragare tali promesse con azioni concrete. Infatti, la pressione interna (anche giustificata da un’effettiva condizione di malessere della popolazione) ed esterna sofferta dai moderati iraniani, se non spianerà la strada alle dimissioni di questo governo – eventualità per altro non appoggiata dalla Guida suprema Khamenei – indebolirà i moderati iraniani al punto che le forze conservatrici agiranno da una posizione di forza, tanto in relazione al nucleare quanto al programma di missili balistici che, naturalmente, alle operazioni in Siria ed in Iraq, rafforzando il circolo vizioso di ostilità nella regione.

In definitiva, occorre salvare il Jcpoa per sostenere i moderati iraniani, per aprire uno spazio di dialogo di lungo periodo e per porre fine alle crescenti tensioni nella regione.