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Passata la sfiducia costruttiva

Spagna: dopo Rajoy, le incognite di un governo Sánchez

2 Giu 2018 - Isabella Ciotti - Isabella Ciotti

“¡Sí se puede!” è stato il grido di gioia dei deputati socialisti e di Podemos poco dopo che Ana Pastor, presidente della Camera, ha dato l’annuncio ufficiale e il vecchio premier ha stretto la mano al nuovo. Sì, si può far cadere un presidente con il suo governo, in soli cinque giorni e con l’accordo di forze politiche apparentemente inconciliabili.

Una sonora sfilza di Sì – 180 a fronte dei 176 necessari -, interrotta giusto quando la lista incontrava il nome di un deputato popolare – ha sancito l’approvazione della mozione di censura contro Mariano Rajoy, decretando la fine del suo mandato e l’inizio di quello del segretario del Partito socialista (Psoe) Pedro Sánchez alla Moncloa. Così vuole la “sfiducia costruttiva” prevista nella Costituzione spagnola, che a chi invoca la destituzione del capo di governo in carica chiede anche di proporre un nuovo leader, fino a nuove elezioni. In questo caso, il promotore stesso della mozione.

Che cosa succede ora
Re Felipe VI ha firmato la nomina di Sánchez a nuovo presidente, che ha giurato nelle mani del sovrano nel palazzo della Zarzuela: manca ora la presentazione della lista dei ministri del nuovo esecutivo, che nelle intenzioni del leader sarà interamente socialista. Certo, governare – perché di governare si tratta, visto che il premier ha chiarito di non voler andare al voto prima del 2020 – con una base di 84 deputati su 350 non sarà impresa facile. Ma il segretario del Psoe vuole provarci, tanto da aver già rifiutato una coalizione con il suo maggiore alleato nella task force per destituire Rajoy, il partito di Pablo Iglesias, Podemos.

Il prezzo da pagare, per godersi da solo questa vittoria sul Partito popolare (Pp) e ridare lustro al partito, sarà evidentemente la garanzia di un impegno costante per tenere insieme le istanze di quei pezzetti di Parlamento che – trovatisi uniti contro un nemico comune – hanno permesso in queste ore la sua affermazione.

La tela del nuovo premier
C’è il partito nazionalista basco – il vero ago della bilancia, fino all’ultimo indeciso –, a cui Pedro Sánchez ha promesso di non toccare il bilancio dello Stato appena approvato dall’ex capo del governo, in particolare quei 540 milioni di euro in investimenti destinati alla comunità Euskadi. Ci sono gli indipendentisti del PdeCat, partito del presidente deposto Carles Puigdemont e del suo successore Quim Torra, a cui ha garantito di intavolare un dialogo costruttivo con il nuovo governo della Catalogna, di sospendere l’applicazione del “controllo diretto” previsto dall’articolo 155 della Costituzione spagnola (promessa fatta anche da Rajoy) e di ridiscutere alcune leggi catalane sospese dal Tribunale costituzionale. E ci sono i due deputati di Nueva Canarias e Coalición Canaria, con cui ha parlato di riforma fiscale e dello Statuto della regione autonoma, ottenendo così un Sì e un’astensione benevola.

Lo aveva detto il leader centrista di Ciudadanos, Albert Rivera, “che Pedro Sánchez sarebbe stato disposto a pagare qualsiasi prezzo per far passare la mozione”. Il suo partito (32) seggi, avrebbe accordato i suoi Sì solo a patto che il segretario socialista rinunciasse al potere e scegliesse un leader terzo per formare un governo di servizio in attesa di elezioni anticipate. Niente da fare.

Qualche maligno, assistendo alla scena dell’abbraccio tra Pedro Sánchez e Pablo Iglesias al termine del voto, ha voluto far notare che in realtà è stato Iglesias ad abbracciare Sánchez, mentre Sánchez stava offrendo a Iglesias solo una stretta di mano. Anche quello con Podemos è visto da alcuni come un rapporto di comodo. Al termine della prima discussione della mozione, quando le intenzioni di voto dei vari piccoli partiti sono parse chiare e Unidos Podemos (alleanza tra Podemos e Izquierda Unida dalle elezioni del 2016) ha confermato il suo sostegno a favore del Sì, il leader del Psoe ha ringraziato Iglesias e i suoi parlando di “vittoria della sinistra”.

Il punto è che si tratta di due sinistre molto diverse. Unidos Podemos, pur avendo abbassato di molto i toni di recente, ha una storia antieuropeista e antisistema, oltre che di sostegno ai movimenti separatisti. Proprio sulla Catalogna, e sull’appoggio del Psoe all’attivazione dell’articolo 155 da parte del governo Rajoy, si era consumato il più grosso strappo con i socialisti, in un rapporto da sempre caratterizzato dall’alternarsi di momenti di grande cooperazione ed altri di totale mancanza di dialogo. I due partiti ora si stringono di nuovo la mano. Ma, appunto, non si abbracciano. Albert Rivera li accusa per questo di irresponsabilità politica, e garantisce una strenua opposizione.

Lotta contro la corruzione, ma non solo
“Siete voi forse madre Teresa di Calcutta, Señor Ábalos?”. Replicava così nella discussione di giovedì Mariano Rajoy, guadagnandosi se non altro le risate dei colleghi di partito, alle accuse rivoltegli dal socialista José Luis Ábalos davanti all’assemblea chiamata a stabilire responsabilità e futuro politico del premier popolare e del suo partito. Un “chi è senza peccato scagli la prima pietra” in salsa spagnola, rivolto da Rajoy direttamente a chi stava chiedendo la sua testa. È evidente, ormai, quanto l’ex presidente sottovalutasse il peso degli scandali che hanno investito il Pp.

Motivo e pretesto politico di questa discesa guidata verso gli Inferi è, com’è noto, il caso Gürtel, la Tangentopoli spagnola che da anni soffia sul collo del Partito popolare. Se finora il Pp aveva schivato i colpi dei vari filoni dell’inchiesta, aperta nel 2009, e non risentito troppo degli arresti, susseguitisi negli anni, di diversi esponenti del partito, la sentenza del 23 maggio scorso e la condanna dell’ex tesoriere Luis Bárcenas a 33 anni di carcere lo hanno letteralmente steso. Si ha ora la prova dell’esistenza di un fondo occulto che raccoglieva finanziamenti illeciti destinati al partito – o, come vorrebbe il Señor Ábalos, – “la prova che il Pp e Gürtel erano la stessa cosa”.

Ora, da un lato gli avversari di Rajoy si chiedono retoricamente perché sia stato necessario l’arrivo di una sentenza per discutere finalmente il cambio di governo. Dall’altro, chi lo sostiene fa notare che la giustizia ha dimostrato di funzionare a prescindere da chi è al governo. Quel che rimane, di certo, è che un dibattito interno alla politica spagnola nato per un bisogno di giustizia, pare già lasciare spazio all’intreccio di interessi delle varie forze politiche riemerse sulla scena.