G7: il Mar cinese meridionale tra Pechino e Washington
Un conflitto a bassa intensità s’intravvede dietro il confronto ravvicinato tra forze navali statunitensi e cinesi nel Mar cinese meridionale (Mcm). Il contesto è quello della disputa tra Cina e Filippine decisa da un lodo arbitrale nel 2016. Ma gli Stati Uniti contestano con operazioni navali alcune rivendicazioni cinesi nell’ambito del Programma sulla libertà di navigazione (Fon) condotto su scala mondiale. Di questo si parlerà in Canada nel prossimo G7, come già avvenuto in simili precedenti incontri di Roma, Tokyo e Berlino. L’interesse dei Paesi G7 è un riflesso di quello Usa: la Cina, con il suo riarmo navale, rivela le sue ambizioni marittime; a preoccuparsene non dovrebbero solo essere Giappone e Regno Unito ma anche l’Ue, Italia in primis.
Isole e scogli contesi
Non è facile sintetizzare in poche righe l’essenza della disputa territoriale del Mcm. In termini generali può dirsi che varie formazioni insulari non possiedono secondo la Convenzione del diritto del mare (Unclos) – essendo composte da scogli disabitati o affioranti a bassa marea – caratteristiche tali da generare a pieno titolo acque territoriali e zona economica esclusiva (Zee). La Cina disconosce questo regime. In più, ha intrapreso un programma di costruzione, su atolli o scogli disabitati, di “isole artificiali” con strutture militari.
La questione è stata portata dalle Filippine, nel 2013, davanti ad un tribunale arbitrale. Il quale ha deciso nel 2016, in assenza della Cina non costituitasi nel procedimento, che Pechino non ha diritto di reclamare acque territoriali e Zee in varie formazioni insulari (come le Spratly e Paracels, o l’atollo di Scarborough) né di alterarne lo stato naturale con strutture artificiali.
Successivamente Manila, sotto la presidenza di Duterte, ha intrapreso la via della riappacificazione, collaborando con la Cina per lo sfruttamento congiunto delle risorse energetiche contese, più che reclamare l’applicazione della decisione arbitrale.
Libertà di navigazione
In tale contesto si inseriscono le azioni di protesta condotte da anni dagli Stati Uniti – e di recente anche dalla Gran Bretagna – negli spazi marittimi contesi per riaffermare, anche in favore dei propri alleati della regione, la libertà di transito delle navi da guerra. Questo diritto, desumibile in via interpretativa dalla Convenzione del diritto del mare (Unclos), è stato oggetto di dichiarazioni, come quella dell’Italia, rilasciate da vari Paesi al momento dell’adesione all’Unclos.
Il G7 sostiene integralmente le posizioni statunitensi inserendole nella cornice della sicurezza marittima del Mcm. Specifici documenti sono stati dedicati alla questione durante varie riunioni G7, inclusa quella di Roma. Il tema è in agenda durante l’attuale presidenza di turno canadese del G7. Di fatto, il sostegno di alcuni membri G7 alle posizioni Usa sembra sostanzialmente formale.
Un’escalation delle tensioni c’è stata qualche giorno fa, quando un cacciatorpediniere e un’incrociatore della US Navy sono transitati, esercitando il diritto di passaggio, nelle acque territoriali delle Isole Paracels al largo del Vietnam. Un episodio simile avvenne nel 1989 tra Usa ed ex Urss nel Mar Nero; allora i sovietici speronarono le unità statunitensi, mentre ora la marina cinese ha solo intimato loro di allontanarsi.
Ambizioni marittime cinesi
È evidente che Pechino punta ad acquisire vantaggi geopolitici nel vasto scenario dell’ Mcm in cui, per lo sfruttamento di pesca e risorse energetiche, è in atto da anni una partita che coinvolge oltre alle Filippine, Brunei, Malaysia, Vietnam, Taiwan e Giappone.
La Cina, abbandonato il suo statico profilo continentale, si sta rapidamente trasformando in potenza marittima, dotandosi di portaerei (siamo già alla terza), costruite in collaborazione con la Russia per supplire all’embargo sulle forniture militari decretato da vari Paesi e dall’Ue dopo Tiananmen.
Anche la disponibilità di basi logistiche dual use, civili e militari, lungo la direttrice occidentale sino a Gibuti ed oltre, fa parte della strategia del filo di perle e della Maritime Silk Road, ispirata alla Via delle Indie britannica. Pechino ha acquistato gran parte dello scalo del Pireo e noi vogliamo offrirle su un piatto d’argento, dietro investimenti logistici, Ravenna, Venezia e Trieste, come porta per l’accesso ai ricchi mercati dell’Italia e del Nord Europa.
Scarsa attenzione Ue
Dissimulare le proprie ambizioni secondo metodi di soft power, applicare in modo distorto e non coerente il diritto internazionale è un gioco che Pechino conosce bene.
Washington, erede della Gran Bretagna dei secoli passati, non da oggi persegue la mobilità delle proprie Forze navali in tutti gli spazi marittimi. Il pericolo è che il problema dell’ Mcm interessi solo Stati Uniti e Potenze regionali, ma non l’Occidente. L’Ue, nell’ambito del Forum Asia-Europa (Asem), lo vede in chiave di rafforzamento delle relazioni bilaterali, senza tuttavia chiedere nulla in termini di libertà di navigazione e rispetto dell’Unclos secondo gli auspici di G7 ed Asean[1], nonostante questi principi siano sanciti nella Strategia di sicurezza marittima del 2014 (Eumss).
Fra un po’ la Marina cinese sarà stabilmente nel Mediterraneo per proteggere i propri ingenti traffici commerciali e tenere i contatti con le comunità cinesi all’estero. Vedremo allora sempre più spesso navi militari cinesi transitare liberamente nelle nostre acque, dimenticandoci che forse non sarebbe possibile il contrario.
[1] L’Associazione delle Nazioni del Sud Est Asiatico (Asean) ha ipotizzato, per raffreddare la tensione nell’ Mcm, l’emanazione di un Codice di Condotta dedicato a misure di confidenza relativa allo svolgimento di attività navali nel rispetto della libertà di navigazione. La base della proposta è nella “Declaration on Conduct of Parties in the South China Sea” del 2002, sottoscritta anche dalla Cina.