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Vertice a Singapore

Corea: Trump-Kim e i convitati di pietra al loro incontro

13 Giu 2018 - Nello del Gatto - Nello del Gatto

Le telecamere di tutto il mondo hanno rilanciato ai quattro angoli del pianeta le immagini dei leader di Stati Uniti e Corea del Nord che si stringevano la mano e sottoscrivevano un accordo durante quello che è stato definito un Vertice storico, un giorno che sarà ricordato nei libri di storia. Un summit politico è sia un punto di arrivo che uno di partenza. Ha logiche e liturgie legate alla storia e alla diplomazia. Ma come in molti eventi simili, spesso a giocare un ruolo importante, sono più i convitati di pietra che i protagonisti sulla scena.

Una sceneggiatura scritta più a Pechino che a Washington o a Pyongyang
Come in una pièce teatrale, a molti analisti, soprattutto orientali, è parso che Kim Jong-Un e Donald J. Trump a Singapore abbiano recitato a soggetto, su una sceneggiatura scritta da altri. E questi ultimi, abitano a Pechino.

Quello di Singapore è stato l’incontro tra due uomini forti, autoritari, che esercitano il potere con forza: uno nei limiti della legge del suo Paese, l’altro in quelli della sua idea di potere assoluto. Entrambi volevano portare a casa un risultato e ci sono riusciti. Kim ha avuto le sue rassicurazioni che resterà sul trono nordcoreano a lungo, senza che i servizi americani, con il placet di Pechino messo alle corde, possano destituirlo. Trump ha occupato ancora di più la ribalta internazionale, il ruolo di paciere mondiale, un lemma un po’ più grosso nel dizionario della storia e qualche spunta sulla checklist delle promesse contenute nel suo programma elettorale.

La Cina è il vero vincitore
Ma leggendo il documento finale con i quattro punti e ascoltando le parole di Trump in conferenza stampa, è chiaro che il vero vincitore del vertice sia Pechino. La Cina ha da sempre chiesto un passo indietro ad entrambi i protagonisti del vertice di Singapore. Pechino ha avuto un atteggiamento diplomatico molto preciso, netto e coerente: da un lato, come principale partner commerciale di Pyongyang ha continuato a investire soprattutto nei progetti energetici al confine, gli unici non intaccati dalle sanzioni contro il regime nordcoreano; dall’altro, sostenendo e, anzi, rinforzando le sanzioni ha fatto pressioni su Pyongyang ma anche sulla diplomazia mondiale per trovare un accordo congiunto. L’idea su cui ha da sempre poggiato le sue mosse diplomatiche per la pacificazione del 38o parallelo è stata la “suspension for suspension” o “freeze for freeze”: Pyongyang si sarebbe impegnata nel processo di denuclearizzazione e Washington avrebbe interrotto i suoi “giochi di guerra”, le esercitazioni militari americane nell’area.

Come ho avuto già modo di scrivere nel mio precedente contributo su questa rivista, tra Giappone, Corea del Sud e l’isola di Guam, ci sono oltre 65.000 soldati a stelle e strisce, oltre alla presenza di armamenti e del sofisticato sistema antimissilistico Thaad, avversato da Pechino, infastidito non poco da questa presenza. Lo stesso presidente americano in conferenza stampa, annunciando la fine delle esercitazioni, ha ricordato come il suo “riportiamo in patria i nostri soldati” sia stato un punto fermo della sua campagna elettorale. E con le elezioni di midterm in vista a novembre, è sicuramente un punto a suo favore per l’opinione pubblica americana.

Quel che non c’è nel documento finale
E’ da notare che la sospensione delle esercitazioni, a differenza della denuclearizzazione, non è stata inserita nel documento finale. Un segno forse che nel gioco delle parti, in quel do ut des nel quale, secondo gli osservatori, Trump ha fatto troppe concessioni a Kim senza ricevere garanzie, gli americani si sono fidati non tanto, come ha detto il presidente americano, della buona volontà espressa da Kim, ma delle rassicurazioni di Pechino a cui è stato lanciato un segnale di buona volontà. Dopotutto, Mike Pompeo in queste ore comincerà, con il suo team, il lavoro duro girando Pechino, Tokyo e Seul, per gettare le basi del lavoro futuro.

Il fatto che sia stato tolto dal documento il cosiddetto Cvid (complete, verifiable and irreversible dismantlement delle istallazioni nucleari) non deve fare pensare a una concessione di Washington che, nel caso, farebbe fare agli Usa la parte degli ingenui, di coloro che credono al giovane leader sanguinario di una dittatura che fino al 24 maggio, a pochi giorni dal Vertice già convocato, annunciava che gli americani avrebbero assaporato le sue armi nucleari.

Bensì a rassicurazioni di qualcuno più influente di Pyongyang, sicuramente Pechino, sul processo. Dal canto suo, però, Pechino (che, ricordiamo, è parte in causa anche per essere il terzo a doversi sedere a tavola per firmare il trattato di pace che dovrà sostituire l’attuale armistizio e mettere fine alla guerra terminata nel 1953) non si sarebbe potuto esporre in prima persona, anche perché il giovane Kim non è nuovo a colpi di testa. Ma i cinesi sapranno come portare a casa il risultato anche per evitare una massiccia ondata migratoria dalla Corea del Nord.

I vantaggi per Pechino d’una Corea pacificata e lo sguardo di Seul e Tokyo
Tra l’altro, una Corea del Nord pacificata, potrebbe rappresentare per Pechino un importante volano economico. Se infatti Pyongyang si dovesse aprire all’economia, come fece la Cina di Deng – impressionato, quest’ultimo, dopo una visita a Singapore, dall’economia di questa città Stato -, a guadagnarci potrebbe essere in primo luogo Pechino, data la vicinanza, i rapporti e i progetti già in corso.

Ruolo attivo dovranno pure avere Seul e Tokyo. Nella Corea del Sud, impegnata in queste ore in elezioni locali e per coprire alcuni seggi al Parlamento nazionale (qualcuno parla di una sorta di referendum per il presidente Moon) c’è cauto ottimismo sull’accordo di Singapore per il quale la presidenza sudcoreana si è spesa molto.

A Tokyo invece si sta alla finestra. Il Giappone, come Seul alleato molto forte di Washington nell’area, si aspettava qualcosa in più dall’accordo di Singapore, abituati, come scrive un editoriale dell’Asahi Shimbun, a troppi voltafaccia dei leader nordcoreani. “Il fatto – è scritto nell’editoriale di oggi – che le basi della politica giapponese della Corea del Nord siano radicate nelle strette relazioni di Tokyo con Washington e Seoul rimane invariato. Ma ora che sia gli Stati Uniti che la Corea del Sud hanno cambiato direzione verso un dialogo più stretto con la Corea del Nord, il Giappone deve affrontare con decisione il fatto che la vecchia strategia a singolo binario di fare pressione su Pyongyang non è più in gioco”.

Ma per il Giappone il Vertice un risultato lo ha ottenuto: riavvicinare le posizioni di Tokyo a quelle di Pechino. “Il Vertice tra Kim e Trump a Singapore – conclude l’editoriale del quotidiano giapponese – non è riuscito a stabilire una direzione definitiva verso la risoluzione di vari problemi in sospeso. Ed è proprio per questo che il Giappone deve sforzarsi di lavorare più vicino a Cina, Corea del Sud e Russia ed esplorare mezzi per un impegno costruttivo con la Corea del Nord”. E non era Pechino che ha sempre chiesto la riapertura del tavolo del Six Party Talks (i colloqui a sei tra Cina, Usa, Sud e Nord Corea, Giappone e Russia sulla denuclearizzazione della penisola coreana) come unico strumento di pace nell’area?