Turchia: elezioni, incognite sulla via di Erdogan e dell’ Akp
Malgrado sia stata caldeggiata dallo stesso leader dell’ Akp (il Partito per la Giustizia e lo sviluppo), la tornata elettorale del 24 giugno è attesa in Turchia in un clima generale di tensioni, interne ed esterne, che potrebbero inficiare il risultato finale. Eppure, il tre volte premier e poi presidente della Repubblica Recep Tayyip Erdoğan non sembra temere il giudizio delle elezioni, come dimostra l’atteggiamento mantenuto sia in politica interna che in politica estera.
Le tensioni interne
Il fallito golpe del luglio 2016 ha messo in luce alcune criticità dell’Amministrazione, prima fra tutte l’incapacità d’assicurare sicurezza senza ricorrere a sistemi repressivi che sono poco conciliabili con un Paese membro dell’Alleanza Atlantica, 14a potenza mondiale e da anni in lista d’attesa per entrare nell’Unione europea – una pratica al momento congelata -.
La libertà di stampa (e di critica all’Esecutivo) limitata, resa esplicita dalle condanne emesse ai danni dei giornalisti e dell’editore di Cumhuriyet, è una spina nel fianco della credibilità di un governo che mostra tratti marcatamente autoritari. Non solo: le epurazioni condotte nelle forze armate (per decenni simbolo della laicità della Repubblica), un costante richiamo alla tradizione islamica, leggi volte a rafforzare la figura presidenziale non sono passate inosservate tanto ai turchi quanto al resto del mondo.
Eclatante il referendum per la riforma costituzionale del 2017, primo step per una transizione dal sistema parlamentare al sistema presidenziale e aspramente criticato dalla stampa occidentale perché, in caso di vittoria dell’ Akp, il nuovo assetto politico permetterebbe una maggiore concentrazione di poteri nelle mani del capo dello Stato. In poche parole, un’ulteriore deriva autocratica.
Le tensioni esterne
Com’è noto, fra i principali obiettivi di politica estera di Ankara c’è quello di assicurare alla vicina Siria un futuro senza il presidente Bashar al-Assad. Parte dell’Impero ottomano fino al 1918, poi mandamento coloniale francese e, infine, alleato mediorientale di Mosca, la Siria rientra nell’orbita geopolitica della Turchia, che desidera estendere la propria influenza nel Mediterraneo orientale ai danni sia della Russia sia di Israele.
Ma il confronto con il Cremlino è tutt’altro che facile: la Russia, infatti, dispone di quattro basi in territorio siriano e, al momento, mostra di avere la situazione in pugno. In poche parole, i russi non abbandoneranno l’unica sponda mediterranea a loro disposizione; anzi, rafforzeranno la presenza nell’area e con essa la leadership di al-Assad.
Cosa fare? La battaglia di Afrin ha palesato che la Turchia limita il suo interesse all’area settentrionale del Paese, nella Rojava (Kurdistan siriano), una piccola striscia di terra di confine capace, però, di accendere i cuori dei turchi e di scatenarne il forte sentimento nazionale, manna per il conservatore e nazionalista Erdogan.
Questo perché i curdi, agli occhi dell’opinione pubblica turca, rappresentano un nemico forse peggiore dello stesso al-Assad, in particolare quel Partito dei Lavoratori del Kurdistan che il governo indica come organizzazione terroristica e che combatte duramente, Afrin docet.
Non l’idea di riconquistare il ruolo dominante che la Grande Porta ha avuto per secoli nelle province mediorientali, ma solo un dare pane ai denti dell’elettorato che si compatta nella guerra al pericolo curdo e nell’opposizione a Israele.
La questione di Gaza
I rapporti fra Ankara e Tel Aviv sono stati ottimi per decenni (vedi l’accordo di cooperazione militare del 1992 e il Turkish-Israeli Business Council del 1993), ma dai primi anni 2000 le relazioni cominciano ad incrinarsi, specie in seguito alla Seconda Intifada quando l’allora capo del governo Bülent Ecevit condannò all’Onu la reazione militare di Israele ai danni dei palestinesi.
Venuto meno il ruolo di tutore, laico, delle istituzioni esercitato dalle Forze Armate, un riacceso nazionalismo religioso danneggia ulteriormente il rapporto con lo Stato ebraico. E, in occasione degli scontri degli ultimi giorni, Erdogan traccia un solco ancora più profondo provocando una profonda frattura diplomatica: “Non permetteremo che Gerusalemme sia usurpata da Israele. Sosterremo la lotta dei nostri fratelli fino al giorno in cui le terre palestinesi, a lungo occupate, avranno pace e sicurezza dentro i confini di un libero Stato palestinese”.
Affermazioni forti, alla quale segue l’altrettanto forte dichiarazione su Hamas che, secondo il leader di Akp, non è un’organizzazione terroristica, come invece è considerata dagli Usa, dalla Gran Bretagna e dall’Unione europea. Una mossa azzardata per un presidente già in passato nell’occhio del ciclone per rapporti, poco chiari, con il Daesh, cioè il sedicente Stato islamico.
Ma l’ideologia religiosa, al pari dell’odio anti curdo, è solida fondamenta di quel consenso politico necessario a Erdogan e all’ Akp per vincere le elezioni. Come sopra accennato, Erdogan non teme il giudizio delle urne: la maggioranza in Parlamento e la vittoria referendaria sono, infatti, segnali forti di un altrettanto forte appoggio popolare. Ciò con cui non ha però fatto i conti è il fatto che le conseguenze delle decisioni adottate in politica estera non tarderanno ad arrivare: le dichiarazioni su Hamas, la repressione del dissenso, la svolta presidenziale allontanano ogni giorno di più la Turchia dall’Ue, l’istituzione in cui Ankara mirava ad entrare da anni.
Inoltre, il vacillare dell’accordo sui migranti è un elemento che genererà nuove tensioni con Bruxelles fino ad un lento, inesorabile isolamento della Repubblica turca dal Vecchio Continente i cui effetti sarebbero devastanti sull’intera leadership politica dell’ Akp, il Partito per la Giustizia e lo sviluppo. La verità è che i turchi non possono fare a meno dell’Europa, unico “strumento” capace di “legittimizzare” e di “occidentalizzare” una nazione che negli ultimi 16 anni pare avere abbandonato il percorso tracciato da Ataturk, per inseguire un sogno neo-ottomano che mai incontrerà il riconoscimento e la considerazione delle istituzioni Ue.