Trump: dazi che aumentano i timori di guerra commerciale
Prima la decisione all’ultim’ora di rinviare fino al 1° giugno l’esenzione dell’Unione europea dalle nuove tariffe americane su acciaio (25%) e alluminio (10%), respingendo le richieste europee di renderla permanente. Poi, la scorsa settimana, il deludente esito della missione a Pechino della delegazione Usa guidata dal segretario al Tesoro Steven Mnuchin, a causa di una sorta di resa incondizionata richiesta alla Cina. Queste le due ultime mosse del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che dimostrano ancora una volta la volontà di andare avanti a ogni costo nella crociata dei dazi. Anche a rischio di una escalation su larga scala dei conflitti commerciali. E non sorprende.
Se in politica estera – a giudizio di molti – Trump si è rivelato in questo primo anno innanzi tutto imprevedibile, in tema di politica commerciale ha semmai dimostrato una certa coerenza, essendo convinto da anni che gli altri grandi paesi sfruttino gli Stati Uniti nel regime multilaterale imperniato sulla Wto, approfittando di una relativa generosa apertura del mercato americano. E poco importa che non ci sia alcuna seria evidenza a sostegno di questa tesi.
Il presidente americano fin dai primi mesi dal suo insediamento si è mosso per ribaltare queste condizioni di svantaggio. Prima con indagini più o meno strumentali dirette ad accertare gli effetti delle eccessive importazioni di acciaio e le violazioni della proprietà intellettuale da parte della Cina. Poi, utilizzandone con molta disinvoltura e al limite della legalità i risultati emersi. E a marzo ha imposto, col pretesto di ragioni di sicurezza nazionale del tutto opinabili o, per meglio dire, palesemente inesistenti, i dazi protettivi.
Obiettivi irragionevoli
Una logica prettamente mercantilistica anima le mosse dell’Amministrazione americana e la spinge a utilizzare i dazi come una sorta di clava. Non tanto a protezione di industrie tradizionali e da tempo in difficoltà, come l’acciaio e l’alluminio, quanto per il raggiungimento di due altri obiettivi, ritenuti ancor più fondamentali.
Il primo è la riduzione del deficit commerciale verso una serie di paesi, tra cui figurano in primo piano la Cina e la Germania. Per ridurli, Trump vuole che i Paesi partner facciano concessioni bilaterali su pratiche commerciali, tariffe e tasse.
Il secondo obiettivo è la Cina e la sua ascesa al rango di superpotenza economica mondiale, soprattutto sul piano tecnologico e dell’innovazione. Una corsa che va fermata secondo l’Amministrazione americana, che la legge come una sorta di ‘aggressione economica’.
Ora il dato più preoccupante è che entrambi gli obiettivi – oltre che irragionevoli dal punto di vista economico – siano difficili se non impossibili da realizzare. I deficit commerciali – com’è noto ai più – hanno natura macroeconomica: sono dovuti al fatto che un Paese – ed è il caso degli Stati Uniti – spende più di quanto produce e, quindi, importa più di quanto esporta. Non si curano quindi con i dazi, ma con politiche adeguate sanando quello squilibrio.
Con riferimento alla corsa della Cina, le critiche americane ai modi disinvolti con cui il Governo cinese e le sue grandi imprese spesso interpretano a loro vantaggio le regole della Wto hanno certamente un fondamento. E’ poco credibile, tuttavia, che gli Stati Uniti possano indurre la Cina a modificare le sue strategie opportunistiche, muovendosi da soli, addirittura contro i loro alleati europei e giapponesi, e utilizzando la batteria di dazi annunciati su oltre 1.300 prodotti cinesi.
Le risposte moderate di Cina ed Europa
Ci sono poche speranze che tutto ciò possa fermare il presidente americano. Come si è detto, c’è troppa ideologia e politica, di pessima fattura, dietro le sue mosse. In questa prospettiva è importante cercare di limitare – almeno a breve termine – l’estensione e i danni dei conflitti commerciali in atto. A questo riguardo molta rilevanza avrà la reazione degli altri due grandi poli commerciali globali, la Cina e l’Europa.
La Cina ha annunciato più volte di essere pronta a rispondere colpo su colpo, con una serie di ritorsioni tariffarie, alla strategia aggressiva americana. Per adesso il governo cinese si è mosso con grande cautela, lasciando aperta più di una porta al dialogo e alla mediazione. Non va comunque sottostimata l’ondata nazionalista che hanno suscitato in Cina le mosse di Trump. Dovesse perdurare lo scontro, è prevedibile che finirà per condizionare e alla lunga modificare l’atteggiamento moderato finora mostrato dalle Autorità cinesi.
Anche la risposta dell’Europa è stata per ora efficace e misurata allo stesso tempo. Nel respingere, innanzi tutto, la pretesa americana di concessioni commerciali e tariffarie da elargire grazie alla pistola dei dazi puntata alla tempia europea. E per aver ribadito i benefici dell’apertura dei mercati, realizzando processi di liberalizzazione e accordi in questi ultimi mesi con Canada e Giappone. Bene ha fatto l’Europa a dichiararsi disponibile – una volta rinfoderata dagli americani la spada dei dazi – a rivedere regole e assetto istituzionale del regime commerciale internazionale, un’esigenza in agenda peraltro da diverso tempo.
I danni di una guerra commerciale
Certo alla lunga isolare le iniziative commerciali americane e preservare il sistema multilaterale a dispetto e contro la volontà degli Usa si potrebbe rivelare una impresa improba, al limite dell’impossibile. Per un po’, tuttavia, potrebbe funzionare nel mitigare i danni della sconsiderata crociata di Trump. Che potrebbero essere molto seri, per l’Europa innanzi tutto.
Si stima che l’estendersi della guerra commerciale finirebbe per aumentare significativamente le tariffe doganali e decurtare la crescita mondiale fino a 2 punti percentuali, dimezzandola rispetto ai ritmi attuali. Se arrivassimo a una sorta di balcanizzazione delle relazioni commerciali, tutto ciò si trasformerebbe per la maggioranza dei Paesi, inclusi gli Usa, in un gioco a somma pesantemente negativa. E non dimentichiamo che è già avvenuto in passato.