Pena di morte: geografia di un ‘pubblico assassinio’
“Ogni individuo ha diritto alla libertà e alla sicurezza della propria persona” (art.9): la ratifica nel 1989 del secondo protocollo della Convenzione internazionale dell’ONU sui diritti civili e politici da parte di 85 Stati ha costituito un passaggio politico-istituzionale importante verso l’abolizione della pena di morte nel mondo. Gli obiettivi finora raggiunti in materia di salvaguardia dei diritti fondamentali, l’impegno diffuso contro ogni forma di negazione della dignità della persona, testimoniano l’efficacia dell’azione condotta dalla World Coalition against Death Penalty (Wcadp, istituita a Roma nel 2002).
Coalition advocacy, campagne mediatiche, dialogo con i decisori pubblici stanno sortendo effetti concreti nell’abolizione della pena capitale, oggi bandita del tutto, o vigente solo per reati eccezionalmente gravi, in 106 Paesi nel Mondo (più di due su tre).
Nel 2017, come emerge dall’ultimo rapporto annuale pubblicato da Amnesty International, il numero delle esecuzioni capitali è sceso sotto quota 1000 (993 in 23 paesi, in calo del 39% rispetto al 2015). “Se, come riteniamo, continuerà questo trend – dichiara Ricardo Noury, portavoce di Amnesty Italia, al Corriere della Sera –, entro cinque o sei anni la grande domanda non sarà più se i Paesi aboliranno la pena di morte, ma solo quando lo faranno”.
Tuttavia, l’inosservanza su questo punto degli impegni internazionali sui diritti umani continua perpetuarsi in Medio Oriente e Asia. Cina, Iran, Arabia Saudita, Iraq e Pakistan violano espressamente il dettato dell’articolo 6 del succitato Patto Onu, dando esecuzione a condanne a morte – previste “soltanto per i delitti più gravi” (comma 2) – per reati legati al possesso e allo spaccio di stupefacenti . Nel 2017, le modifiche intervenute in alcuni Paesi al quadro legislativo sulle droghe ha provocato effetti contrastanti: il numero di sentenze capitali eseguite per tali reati è sceso in Iran (40% sul totale delle esecuzioni, rispetto al 60% del 2016) e in Indonesia (70%, a fronte del 77% l’anno prima), mentre è raddoppiato a Singapore (otto esecuzioni nel 2017, il doppio rispetto al 2016) e in Arabia Saudita (dal 14% del 2016 al 40% del 2017).
Cina, il ‘libretto nero’ della pena di morte
“Noi [il Partito popolare cinese] stiamo attualmente lavorando per raggiungere i seguenti obiettivi […], migliorare il sistema giudiziario, abolire la pena di morte e abolire le punizioni corporali”. Così recitava un documento datato 15 giugno 1922. Nei cento anni successivi, interventi di regolamentazione sul segreto di Stato hanno aggravato l’opacità che Human Rights Watch (“State Secrets: China’s Legal Labyrinth”) e Amnesty International (“I segreti mortali della Cina”) riscontrano nella Repubblica popolare cinese, il Paese che esegue la maggior parte delle sentenze capitali nel mondo.
Le Ong denunciano l’assenza di centinaia di casi documentati dai registri giudiziari online: tra il 2014 e il 2016, stando ai dati forniti dai media cinesi, sono state eseguite 931 condanne a morte, di cui solo 85 rese note nel China Judgements Online, database della Corte suprema del Popolo. Prevista per 46 tipi di reato, la pena di morte viene comminata per lo più in casi di omicidio e traffico di droga (stimate 11 esecuzioni nel 2017): la vicenda di Nie Shubin, assolto nel 2016 dopo essere stato condannato a morte nel 1995 con l’accusa di rapimento e delitto volontario, ha scosso l’opinione pubblica cinese, preoccupata dalle sentenze emesse nei confronti di cittadini rivelatisi poi innocenti (quattro assoluzioni lo scorso anno), inducendo le autorità cinesi ad emettere “delle circolari finalizzate al rafforzamento delle salvaguardie sul giusto processo”, come riportato nel rapporto di Amnesty.
Africa: pena capitale, problema trasversale
Stante la permanente frammentazione negli ordinamenti giuridici nazionali, il numero dei Paesi africani abolizionisti (attualmente 20) è cresciuto negli ultimi due decenni: finora solo 12 Paesi su 54 hanno ratificato il Patto Onu e alcuni restano solo firmatari (Angola e Gambia), ma “!i progressi compiuti nell’Africa sub-sahariana hanno rafforzato la sua posizione di ‘simbolo di speranza’ per il movimento abolizionista”, ha commentato Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International.
Impegni non solo sul piano legislativo seguono questa direzione: la Dichiarazione redatta in occasione dell’ultimo Congresso regionale africano contro la pena di morte (9 e 10 aprile scorso) pone al centro la protezione del diritto alla vita, chiedendo agli organismi internazionali, “di continuare e di intensificare la cooperazione con gli Stati e la società civile”, nonché “di impegnarsi nella sensibilizzazione e nell’educazione presso il pubblico”, constatando altresì che “la lotta al terrorismo viene deviata per estendere la portata della pena di morte”.
La negazione dei diritti in Medio Oriente
La pena di morte, specie in Africa del Nord e in Medio Oriente, è l’apice della violazione dei diritti umani: “In casi di pena capitale – sottolinea il rapporto Amnesty -, le garanzie fondamentali sul giusto processo erano assenti e le corti si sono spesso basate su ‘confessioni’ estorte sotto tortura per infliggere condanne a morte”. Casi lampanti di negazione della dignità umana sono l’esecuzione di Yussuf Ali al-Mushaikhass, accusato di terrorismo per avere preso parte ad alcune proteste anti-governative nel 2011-’12 in Arabia Saudita; e le decine di condanne comminate per ‘reati religiosi’ (accuse di blasfemia e ‘corruzione sulla terra’) in Iran o ‘politici’ in Egitto.
“Almeno 264 condanne a morte eseguite – prosegue il documento -, erano state emesse per reati connessi alla droga”, il numero più alto a livello mondiale. Alla fine del 2017, 21.919 condannati a morte restavano in attesa di un’esecuzione. “La pena di morte non serve alle vittime e non ha effetto deterrente nei confronti dei crimini”, ha ribadito il segretario dell’Onu António Guterres lo scorso ottobre, intervenendo alla conferenza Transparency and the death penalty.