Trump, Macron e la Merkel: l’accordo con l’Iran e l’Europa
Nessuno può sorprendersi se lo stile e la disinvoltura con cui Emmanuel Macron si muove sul terreno della politica estera crea in Europa diffusi mugugni, se non malumore. Le reazioni al recente viaggio a Washington ne sono un esempio parlante; tra l’altro tutto ciò avviene poco tempo dopo la partecipazione della Francia ai bombardamenti in Siria assieme a Usa e Gran Bretagna. Le reazioni italiane non fanno eccezione, ma a mio avviso con il loro carattere quasi unanimemente negativo rappresentano un caso a parte. Prendiamo i due argomenti che hanno dominato i colloqui di Washington: Iran e commercio. Per il momento mi soffermo sul primo, riservandomi di trattare il secondo in un articolo successivo.
Sul comportamento del presidente francese si fanno diversi commenti, che è bene esaminare separatamente. Il primo è che il suo attivismo serva in primo luogo a riaffermare una supremazia francese su un terreno che vede la Germania ancora debole, soprattutto in un momento in cui la leadership della cancelliera Angela Merkel sembra appannata.
C’è sicuramente del vero e non tutti a Berlino ne sono entusiasti. I tedeschi sanno tuttavia che la loro “inferiorità” in questo campo è in parte l’eredità di una storia troppo conosciuta per doverla ricordare e che spiega la grande difficoltà di qualsiasi governo tedesco ad ottenere l’autorizzazione del Bundestag per missioni militari all’estero o per aumentare le spese militari verso l’obiettivo stabilito dalla Nato.
A Berlino sono perfettamente coscienti che, se vogliono partecipare al governo dell’Europa in una fase in cui sviluppare una politica estera diventa ineludibile, questi vincoli dovranno essere progressivamente superati. Resta il fatto che nonostante encomiabili tentativi dei commentatori di individuare le differenze, Macron e Merkel hanno assunto sull’ Iran posizioni identiche.
La politica europea sull’ Iran
Una seconda critica è formale: Macron e Merkel si sono arrogati il diritto di parlare a Washington “a nome dell’Europa” senza averne il mandato. Prima di trattare questo punto è però bene soffermarsi sulla sostanza. Qual è la politica europea sull’ Iran? L’elemento più importante è la difesa dell’accordo sul nucleare, giudicato non perfetto ma il migliore possibile e suscettibile di aprire la strada a un’evoluzione pacifica dei rapporti fra Iran e Occidente.
Si ricorderà per inciso che, mentre l’accordo veniva negoziato, fra i più reticenti c’era già la Francia, allora rappresentata dal presidente François Hollande e dal ministro degli Esteri Laurent Fabius. Questa posizione europea è stata affermata con forza al momento dell’elezione di Trump e reiterata senza ambiguità da entrambi i leader europei a Washington.
Tuttavia noi europei non possiamo focalizzarci solo sulla difesa dell’accordo e fare finta di non vedere che ci sono stati importanti mutamenti negli ultimi due anni. Non parlo dei sospetti, diffusi dal governo israeliano e che al momento sembrano infondati, che l’ Iran abbia violato l’accordo nucleare. C’è invece il programma missilistico, difficile da giustificare per un Paese che afferma di aver rinunciato all’arma nucleare e che costituisce una minaccia evidente per i Paesi della regione. C’è soprattutto l’espansione di milizie iraniane in Siria e in Libano, con importanti concentrazioni di truppe e capacità militari alla frontiera di Israele.
Tutto ciò è avvenuto in parte anche per gravi responsabilità occidentali e americane nella gestione della crisi siriana, a cominciare dalle tergiversazioni di Barack Obama. Il necessario esame di coscienza non deve tuttavia oscurare che “l’arco sciita” dalla Siria al Libano è per Israele una minaccia esistenziale; soprattutto quando si tratta di un Paese come l’ Iran che nelle parole di alcuni dei suoi massimi rappresentanti mantiene l’obiettivo della scomparsa di Israele.
Il nostro giudizio non deve essere distorto dalla comprensibile antipatia che nutriamo nei confronti dell’attuale governo israeliano, o per l’improvvida mossa di Trump di spostare l’ambasciata a Gerusalemme. Il rifiuto di una presenza iraniana alla frontiera sarebbe una assoluta priorità anche dei governi laburisti del passato.
Attendendo il 12 maggio: Ue tra Trump e guerra israelo-iraniana a bassa intensità
La sensibilità americana verso comportamenti iraniani considerati incompatibili con lo spirito dell’accordo non riguarda solo il presidente, ma è largamente condivisa nel Congresso anche da quelli che non vorrebbero denunciare l’accordo nucleare. L’accusa che il clima di distensione creato dall’accordo, invece di essere l’inizio di un’evoluzione positiva, è stato sfruttato dall’ Iran per comportamenti inaccettabili non può essere facilmente respinta.
La posizione espressa da Macron e Merkel a Washington (difendere l’accordo, ma fare pressione sull’Iran per nuovi negoziati) è quindi la più logica dal punto di vista europeo. Essa ci consente di continuare, se come prevedibile Trump il 12 maggio denuncerà l’accordo, a difenderne la validità ma allo stesso tempo a coordinarci con gli Usa per fare capire agli iraniani che la situazione è inaccettabile e che rischiano di perdere il nostro appoggio.
Questa prospettiva non è evidentemente soddisfacente e la situazione è brutta da tutti i punti di vista. Sul piano commerciale, anche se riusciremo a evitare le sanzioni secondarie americane che colpirebbero le imprese europee, è probabile che molte di esse si autocensureranno comunque nei confronti dell’Iran e che i rapporti economici che si stavano sviluppando ne risentiranno. Inoltre dovremo abituarci a una guerra israelo-iraniana che è già iniziata, che per il momento è di bassa intensità ma che potrebbe in ogni momento sfuggire al controllo delle parti.
Infine abbiamo a che fare con un presidente americano che teorizza l’imprevedibilità come metodo di governo senza capire che in questo modo rende quasi impossibile la collaborazione con gli alleati. Ciò non ha tuttavia solo riflessi negativi. Da un lato aumenta la pressione sull’ Iran; dall’altro dovrebbe fare capire alla Russia i limiti del suo espansionismo in Medio Oriente, cosa che del resto era già un obiettivo del recente raid aereo.
Francia e Germania hanno prevaricato a Washington sulle posizioni europee?
Purtroppo della politica estera dell’Unione si può a volte dire ciò che si dice delle Nazioni Unite. La migliore giustificazione della legittimità del raid aereo in Siria è che è stato il risultato di mesi di paralisi imposti dalla Russia ai lavori del Consiglio di Sicurezza. Ugualmente, la politica estera dell’Ue corre il serio rischio di essere prigioniera delle liturgie. Prima della missione a Washington, Francia, Germania e Regno Unito avevano proposto una lista di possibili sanzioni per cominciare a far pressione sull’ Iran. L’iniziativa era stata bloccata da una minoranza di Paesi, fra cui l’Italia.
Possiamo poi lamentarci, se l’Unione è frenata da una minoranza? Non è invece più serio ammettere che la posizione dei tre Paesi esprime la sostanza della posizione europea, anche se non è unanime?
Vorrei infine tornare all’Italia. Qual è la ragione di questa diffusa animosità verso la politica francese? Le ragioni possono essere molteplici. In questo caso sono purtroppo l’espressione del vecchio ‘andreottismo’ della tradizione italiana: fedeltà formale alle alleanze, ma grande reticenza di fronte a qualsiasi forma d’impegno che può metterci in conflitto con qualcuno.
Tradotta in termini europei questa posizione si traduce nel volere una politica comune a patto che sia priva di rischi e di contenuto concreto, altro che un generico richiamo al multilateralismo. Posizione comprensibile per un Paese che ha elevato ‘l’amicizia con tutti’ a una forma d’arte, ma che entra in crisi quando nel corso delle vicende internazionali la palla torna nelle mani degli attivisti, soprattutto se si tratta dei nostri più stretti alleati.