Italia/migranti: contratto di governo, velleitario e ripetitivo
Una delle poche cose chiare del governo che si va formando in Italia è la rigida divisione del lavoro che, almeno in alcuni ambiti, verrebbe operata tra le due forze che lo sostengono. Uno di questi ambiti è l’ immigrazione, che appare affidata integralmente alle cure della Lega. Coerentemente, a Salvini andrebbe il ministero dell’Interno, che, ancor più di oggi, si configurerebbe come titolare esclusivo delle politiche migratorie.
Possiamo immaginare che i Cinque Stelle si siano spogliati con sollievo di ogni ruolo in una materia su cui si sono sempre mostrati ambigui e ondivaghi. Viene così ceduto al socio di minoranza un terreno scivoloso su cui, per il Movimento, i rischi di fratture interne sono maggiori delle opportunità di rafforzamento del consenso. Si vedrà poi se e quanto questa scelta cauta sia stata anche miope, visto che la politica migratoria rimane comunque la leva mediatica con un rapporto più vantaggioso tra sforzo richiesto e dividendi immediati.
La Lega torna così al vertice della politica migratoria nazionale, come già con Maroni nel 1994 e poi di nuovo nel 2008. Si dirà: ma questa è una Lega diversa, non più “Nord” ma “nazionale”, non più autonomista ma sovranista. A leggere il capitolo 13 del contratto di governo, significativamente sottotitolato “Rimpatri e stop al business”, non si direbbe. Di nuovo c’è poco, e poco anche di concreto; in questo siamo assai lontani dalla puntigliosa agenda contenuta nel Koalitionsvertrag tedesco.
Tre paginette vecchie nell’ideologia e nelle proposte
Le tre paginette che dovrebbero guidare, in questo ambito, il “governo del cambiamento” suonano irrimediabilmente vecchie, tanto nella ideologia di fondo quanto nelle proposte. Tutto si fonda su una visione angusta e irrealistica dell’ immigrazione come fenomeno fondamentalmente nocivo e contingente, che sarebbe dunque necessario, ma prima ancora possibile, limitare drasticamente se non fermare del tutto.
Quanto agli strumenti, più di quello che c’è, salta all’occhio quello che manca: nemmeno una parola su canali di immigrazione legale e politiche di integrazione. Come colmare le carenze di offerta che, con la ripresa, ricominciano ad affiorare nel mercato del lavoro? Come evitare che cinque milioni di lavoratrici, lavoratori, studenti e famiglie straniere, tutti pienamente regolari, per i quali il rischio di povertà è già doppio che per gli italiani, diventino una casta perennemente condannata alla marginalità?
A queste domande, strategiche per lo sviluppo e per la stessa sicurezza di un Paese demograficamente anziano e geo-politicamente periferico come il nostro, il contratto giallo-verde non abbozza neppure una risposta. E’ vero che di immigrazione legale e integrazione si è parlato troppo poco anche in questi anni di coalizioni guidate dal Partito democratico, ma, con il passare del tempo e il mercato del lavoro in leggera ripresa, la lacuna diventa più difficilmente sostenibile.
Inoltre, nella sezione dedicata alle politiche per la famiglia, si promettono discriminazioni destinate a sgretolare quel poco di integrazione che c’è già: riservare asili-nido gratuiti alle famiglie italiane, per esempio, oltre a ovvie riserve di costituzionalità, vuol dire rafforzare una tendenza purtroppo già esistente al confinamento di tante mamme straniere nel chiuso delle loro case.
Una ricetta pasticciata, stantia e irrealizzabile
A fronte di pesanti lacune, quello che invece nel contratto c’è, perlomeno sulla carta, è una ricetta su come prevenire nuovi arrivi e ridurre una presenza indesiderata, a partire da un presunto mezzo milione di irregolari. Ma è una ricetta pasticciata, stantia e irrealizzabile. Sul versante della prevenzione delle migrazioni forzate (e delle reti di traffico che le sfruttano) si va da ineccepibili quanto pleonastici e grottescamente generici proclami (“occorre bloccare la vendita di armi ai Paesi in conflitto e contrastare il terrorismo internazionale anche di matrice islamista”) a idées reçues attraenti, ma di assai dubbia praticabilità.
Quando si afferma, per esempio, che la “valutazione dell’ammissibilità delle domande di protezione internazionale deve avvenire nei Paesi di origine e di transito, col supporto delle Agenzie europee”, si ripete un mantra tecnocratico che – a Bruxelles come in altre capitali europee – viene enunciato da anni. Ma non si fa nessun passo avanti concreto nel dire da quali bacini di crisi cominciare, con quali garanzie di sicurezza, sulla base di quali accordi tra Paesi europei per garantire la redistribuzione e il collocamento definitivo di coloro che superassero il giudizio preliminare di ammissibilità.
La stessa deliberata ignoranza dei pesantissimi vincoli internazionali si riscontra in quello che è forse il pilastro centrale dell’intero castello (di carte): “E’ necessario il superamento del regolamento di Dublino”.
Sarebbe fare un torto davvero grave alliintelligenza di chi ha scritto queste righe pensare che non sappia che, per convincere gli altri Paesi europei ad aprire le loro frontiere a una quota congrua di richiedenti asilo (o anche di rifugiati che abbiano già superato un ipotetico giudizio di ammissibilità off-shore), occorrerebbero incentivi potentissimi. E, dati i rapporti di parentela politica con alcuni dei partiti più refrattari alla solidarietà europea (a partire dal Fidesz di Viktor Orbán), si deve supporre che la Lega, più di ogni altra forza politica, sia assolutamente consapevole di queste resistenze. Servirebbe dunque una azione politico-diplomatica di enorme ampiezza e impegno a livello europeo, per aprire la strada a una vera riforma delle regole di Dublino.
Ma non sembra che sia questa la direzione presa; d’altra parte, se c’è un tallone d’Achille del sovranismo è proprio questo: rende difficile formare coalizioni stabili, fosse pure con altri sovranisti (che però non hanno 7500 km di coste e possono più agevolmente coltivare illusioni isolazioniste).
Rischio di ripiego verso soluzioni autarchiche
E’ dunque probabile che, nonostante la rituale invocazione di soluzioni europee per l’ immigrazione, si finirà per dover ripiegare su soluzioni autarchiche, che in effetti vengono predicate. Su questo secondo versante, la formula decisiva viene presentata in questi termini: meno risorse per l’accoglienza, più risorse per i rimpatri. Ma qui, di nuovo, ci si scontra con i vincoli internazionali e, in particolare, con l’eterno scoglio della mancanza di accordi di riammissione funzionanti, che anche in passato ha fatto sì che i governi di Centro siano stati quelli con i tassi di rimpatrio effettivi più bassi.
Non c’è dubbio che il sistema di accoglienza attuale, cresciuto a dismisura sotto la pressione degli arrivi massicci degli ultimi anni, sia un edificio costoso, poco produttivo (in termini di integrazione stabile dei suoi ospiti) ed esposto al rischio di malversazioni. Anche in questo caso, a livello di enunciazioni di principio, il contratto punta in alto e promette bene: “…superare l’attuale sistema di affidamento a privati dei centri e puntare a un maggiore coinvolgimento delle istituzioni pubbliche, a partire da quelle territoriali”.
Quando però si legge che la gestione dei centri di accoglienza verrebbe trasferita alle regioni, ma solo con il “preventivo assenso degli enti locali coinvolti, quale condizione necessaria per la loro istituzione”, non si può non interrogarsi, ancora una volta, sulle effettive intenzioni dei contraenti. Come in materia fiscale, anche in tema di immigrazione, le promesse irrealizzabili sono una droga che può funzionare a breve termine, ma che poi richiede dosi crescenti, con effetti devastanti nel lungo periodo.